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09.12.2008
Dopo il massacro di Mumbai il Pakistan è al bivio
l'analisi di Fareed Zakaria, mentre la presunta mente dell'attentato è stata arrestata
Testata : Corriere della Sera
Data : 09 dicembre 2008
Pagina : 15
Autore : la redazione - Fareed Zakaria
Titolo : «Pakistan, un arresto. «La mente della strage» - Fine corsa per il Pakistan»
Da pagina 15 del CORRIERE della SERA del 9 dicembre 2008 riportiamo l'articolo "Pakistan, un arresto. «La mente della strage»": ISLAMABAD — Sarebbe stato lui a telefonare ai terroristi islamici inviati in India e a dare il via agli attacchi di due settimane fa a Mumbai: Zaki-ur-Rehman Lakhvi, «mente» — secondo gli investigatori indiani — degli attentati in cui sono morte almeno 171 persone, è stato arrestato domenica dalle forze di sicurezza pachistane. Esponente di spicco dell'organizzazione terroristica islamica Laskhar-e-Taiba, già noto per aver addestrato terroristi, è stato catturato nel corso di un raid in una base di miliziani nel Kashmir pachistano. Secondo fonti militari, l'operazione si inquadra nell'azione repressiva inaugurata del Pakistan contro le organizzazioni jihadiste bandite nel Paese, proprio come Laskhar. Nei giorni scorsi erano sorti timori che se Islamabad non avesse collaborato, la tensione con l'India sarebbe potuta montare e anche gli Stati Uniti — con la visita del segretario di Stato Condoleezza Rice — avevano fatto pressione perché Islamabad agisse contro i miliziani sospettati degli attacchi.
Da pagina 38 del CORRIERE l'analisi di Fareed Zakaria sul Pakistan: Se i recenti attacchi terroristici a Mumbai sono stati l'11 settembre dell'India, il Paese ha reagito in modo molto diverso dagli Stati Uniti nelle settimane che seguirono quell'immane tragedia. Il dibattito in India si è concentrato all'interno e ha preso di mira la scarsa preparazione del governo, le inadempienze dei servizi di sicurezza e la gestione caotica della crisi. Pur avendo diversi alti funzionari indiani già rassegnato le dimissioni e malgrado le prove che ricollegano i terroristi al gruppo pachistano militante Lashkar-e-Taiba, il governo indiano non ha scatenato nessuna guerra. Persino il partito fondamentalista indù, Bharatiya Janata, intransigente per tradizione, invoca anzi una «diplomazia muscolosa » da parte della comunità mondiale, per costringere il Pakistan a rispettare gli impegni presi con le Nazioni unite nella lotta al terrorismo. L'India ha adottato una linea di cautela, e per validi motivi: le due nazioni sono potenze nucleari e un attacco militare non farebbe altro che infiammare il nazionalismo pachistano. Ma un governo democratico, che tra breve si presenterà alle elezioni, può permettersi di mostrare moderazione e autocontrollo solo se ne avrà un tornaconto. Altrimenti il sud asiatico — tra cui l'Afghanistan — rischia di piombare nel caos. C'è chi sostiene che l'India dovrebbe ricorrere all'intelligence e all'aviazione per distruggere i centri di addestramento Lashkar, situati sul confine con il Kashmir. Ma non occorrono spie e aeroplani per individuare il capo del Lashkar, Hafiz Mohammed Saeed, perché vive e lavora a Lahore. Certo, il Lashkar è stato messo al bando dal governo pachistano nel 2002, ma oggi Saeed gestisce il suo braccio «benevolo», Jamaat-ul-Dawa, che rappresenta un vasto movimento in ascesa nel paese. Il problema dei gruppi militanti islamici in Pakistan non è che sono difficili da individuare, quanto piuttosto che agiscono alla luce del sole. Il governo pachistano non ha mai preso la decisione inequivocabile di rinnegare la cultura del Jihad. Quando si parla di governo pachistano, tuttavia, occorre essere precisi. In questa vicenda, il governo civile democraticamente eletto sembra quasi uno spettatore inerme. All'inizio, il presidente Asif Ali Zardari ha denunciato i terroristi e offerto piena collaborazione agli investigatori indiani. Il suo primo ministro ha proposto di inviare in aiuto a New Delhi il capo dei servizi di sicurezza pachistani. Ma non appena le forze armate hanno fatto sentire la loro voce, l'offerta è stata ritirata e le dichiarazioni di Zardari si sono fatte sempre più evasive e difensive. Se qualcuno ignorava ancora chi governa effettivamente il paese, adesso ha le idee chiare. Resta ancora da accertare tuttavia se i militari pachistani siano stati coinvolti negli attentati di Mumbai. Gli indiani ne sono convinti. «I terroristi sono stati addestrati in quattro campi in Pakistan da uomini con il grado di colonnello e maggiore. Si sono serviti di canali di comunicazione ben noti, appartenenti ai servizi di sicurezza pachistani. E questo non è possibile senza che l'esercito ne sia stato informato», mi ha spiegato un ufficiale indiano. I sospetti sono condivisi da molti. «E' stata un'operazione anfibia in tre fasi. I terroristi hanno mantenuto il silenzio radio, hanno lanciato azioni diversive per depistare le prime reazioni, conoscevano tutti i percorsi attorno agli hotel, erano equipaggiati con sistemi di comunicazione crittografica, carte di credito e documenti d'identità falsi», asserisce David Kilcullen, un esperto di queste tattiche, già collaboratore del generale David Petraeus. «Si direbbe un'operazione classica di commando o forze speciali, piuttosto che un'azione terroristica. Nessun gruppo collegato ad Al Qaeda, e nemmeno il Lashkar, è mai riuscito a lanciare un attacco dal mare di tale complessità ». L'esercito pachistano era o no a conoscenza di questa operazione? Delle due ipotesi, difficile dire quale sia la più preoccupante. La situazione dell'intera regione è assai complicata, ma una cosa è chiara. Tutte le strade passano da Rawalpindi, il quartier generale delle forze armate pachistane, che per decenni ha finanziato gruppi militanti, come Lashkar e talebani, allo scopo di sfiancare l'India e influenzare l'Afghanistan. Ma oggi è davanti a un bivio. Se il Pakistan non adotta un nuovo sistema per tutelare i suoi interessi strategici, il Paese resterà in preda all'instabilità, circondato dalla diffidenza dei suoi vicini. Persino i cinesi, alleati storici, cominciano a preoccuparsi della diffusione dell'estremismo islamico. Il Pakistan deve guardare agli interessi nazionali da una prospettiva civile, non militare, per far sì che i buoni rapporti con l'India portino allo sviluppo del commercio, alla crescita economica e alla stabilità. Ovvio, se così fosse il Pakistan non avrebbe alcun bisogno di una classe militare che divora un quarto del bilancio nazionale e governa il paese come un'elite privilegiata. Il paese che potrebbe fare più di qualunque altro per modificare la posizione dei militari è l'America. Se l'India colpisse alcuni campi di addestramento Lashkar, questo sarebbe combattere i sintomi, non la causa del disagio, e finirebbe per accrescere le simpatie verso i militari tra la gente comune. Al contrario, il mondo deve premere affinché il Pakistan capisca autonomamente che la tolleranza per tali gruppi inibisce il suo potenziale di sviluppo. La diplomazia americana sinora si è rivelata rapida ed efficace. Occorre tuttavia mantenere alta la pressione su Islamabad e coinvolgere altri paesi, come Cina e Arabia Saudita. Il presidente eletto Barack Obama ha già proposto un pacchetto di aiuti al Pakistan a condizioni ragionevoli, destinate a modernizzare il paese. Ma se la situazione dovesse aggravarsi in questa parte del mondo, l'America rischia moltissimo. Con l'inasprimento delle tensioni tra India e Pakistan, l'attenzione dei militari verrebbe distolta dai jihadisti presenti nelle aree tribali, aggravando l'instabilità dell'Afghanistan e concedendo mano libera ai talebani e Al Qaeda. Anche Washington è ansiosa di vedere risultati. © Newsweek 2008 Per inviare la propria opinione alla redazione del Corriere della Sera cliccare sulla e-mail sottostante
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