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La Repubblica Rassegna Stampa
08.12.2008 La sharia in Italia ormai è realtà
un'inchiesta di Carlo Bonini sui tribunali islamici, e il commento di Renzo Guolo

Testata: La Repubblica
Data: 08 dicembre 2008
Pagina: 1
Autore: Carlo Bonini - Renzo Guolo
Titolo: «Tribunali islamici nelle moschee d´Italia - Una contraddizione reale ma lo Stato è indifferente»
Dalla prima pagina e dalle pagine 20 e 21 de La REPUBBLICA dell'8 dicembre 2008, riportiamol'inchiesta di Carlo Bonini "Tribunali islamici nelle moschee d´Italia":

La preghiera è finita da qualche minuto. Ai piedi della scala di ferro della moschea di viale Jenner, una folla vociante di fedeli recupera le proprie scarpe. Un furgone scarica carne di montone nella macelleria islamica al pian terreno. Vestito della sua jalabia grigia, Abu Imad, l´Imam, è nel suo ufficio ingombro di scartoffie e testi sacri. Seduto su una poltroncina ergonomica, chatta sul suo pc da tavolo. Alla sua sinistra un fax, di fronte a sé quattro telefoni cellulari dalle suonerie con la voce del muezzin. Egiziano, 45 anni, da dodici è la massima autorità religiosa di una comunità musulmana che, qui a Milano, ha raggiunto le 80 mila anime. Predica la parola di Dio. Ma non solo. In un Paese, il nostro, che non le riconosce alcuna legittimità ed efficacia giuridica, amministra, come può e per quel che può, la legge di Dio, la Sharia, cui volontariamente i suoi fedeli chiedono di sottoporsi. Unisce in matrimonio. Compone le controversie proprie del diritto di famiglia. Si pronuncia sull´affidamento dei figli. Sollecita l´intervento dei tutori di marito e moglie nei casi di maltrattamento. Verifica i presupposti del "talak", la dichiarazione formale con cui l´uomo ripudia la donna che gli è sposa.
Dice Abu Imad: «L´Italia non è l´Inghilterra, dove una legge dello Stato ha istituito tribunali islamici alle cui pronunce un musulmano si sottopone volontariamente e che hanno valore di sentenza arbitrale e dunque un riconoscimento di legittimità all´interno del Paese in cui sono state pronunciate. E l´Italia, purtroppo, non è neanche l´Egitto, dove ai cristiani è riconosciuta una giurisdizione speciale in quei campi del diritto privato in cui fede religiosa e diritti e doveri dei singoli si intrecciano. Ma il fatto che in Italia non esista una legge, non elimina il bisogno della nostra comunità di vedere amministrata la legge di Dio, la Sharia. Innanzitutto per quel che riguarda il diritto di famiglia. E io sono qui, anche per questo».
Nell´anno che sta per chiudersi, l´Imam ha sposato quaranta giovani coppie. Secondo una media più o meno costante e che si ripete da tempo. «A quanto ne so, non solo a Milano e non solo nella mia moschea», dice. Per la Sharia, il matrimonio non è un sacramento, ma un contratto. Abu Imad ne è il notaio. «Verifico che ricorrano le quattro condizioni perché l´unione sia valida. Il consenso dei tutori dello sposo e della sposa. Il regolare versamento della dote da parte dello sposo alla sposa - siano contanti, preziosi o anche beni immobili - e la sua congruità. L´esistenza di almeno due testimoni e dei certificati che attestino lo stato di libertà dal vincolo matrimoniale della donna. Per l´uomo non sarebbe necessario, perché l´Islam ammette la poligamia. Ma essendo in Italia e sapendo che guai ne potrebbero nascere, chiedo anche quello dell´uomo». I tutori di marito e moglie sono i rispettivi padri, se in vita. Altrimenti, se esistono, i fratelli. O, ancora, e in alternativa, i congiunti prossimi di sesso maschile. Nonni, zii. «Ma è capitato e capita che, se non esistono uomini nella famiglia di uno degli sposi, sia io a sostituirmi come tutore».
Il matrimonio si celebra negli otto metri quadri di ufficio dove l´Imam è seduto in questo momento. O in casa, o in un albergo. Non esistono registri, a quanto pare. «L´importante è che il matrimonio, una volta celebrato, venga annunciato qui alla comunità con una festa, in cui si offrono cibo e bevande». Perché solo così, quel matrimonio islamico, potrà essere conosciuto e riconosciuto dagli altri fedeli. «Normalmente, invito gli sposi a celebrare il matrimonio anche in Comune, perché abbia efficacia giuridica anche in Italia. O ad andare al Consolato del Paese di origine perché il contratto di matrimonio venga stipulato di fronte a funzionari di quel Paese che rendano così il matrimonio valido per la legge islamica. Ma, ovviamente, questa è una scelta che spetta agli sposi».
Unire in matrimonio appare a ben vedere semplice. Lo è meno intervenire sul vincolo, quando entra in crisi, con i precetti della Sharia. Dice Abu Imad che, quando un uomo bussa alla porta del suo ufficio per pronunciare quella parola - "talak" - che significa ripudio, la regola vuole che vengano convocati al suo cospetto i tutori di marito e moglie. L´Imam si fa pensoso, congiunge le mani. «Normalmente, tento una mediazione. Se necessario consultandomi anche con gli anziani della comunità. Invito i due tutori a intervenire sui coniugi per sanare il conflitto. E do un tempo perché loro mi riferiscano l´esito. Se il conflitto è materiale, legato cioè alla mancata osservanza dei doveri da parte della donna, spesso la mediazione ha una sua efficacia. Ma se il conflitto è spirituale, se il marito mi dice che non ama più la sua sposa, allora non posso far altro che constatare l´avvenuto ?talak´ e osservare scrupolosamente quello che la Sharia prevede». Per la legge di Dio, l´uomo ha un tempo di ripudio calcolato in tre mestruazioni della donna. Dice l´Imam: «Entro tre cicli mestruali della moglie, il marito che ha pronunciato il ripudio può ripensarci e tornare sotto il tetto coniugale, se lo ha abbandonato. Oppure, se non lo ha abbandonato, consumare un rapporto sessuale consenziente. In questo caso, il ripudio si considera decaduto. Tre cicli mestruali sono il tempo necessario, del resto, a verificare che la donna non porti in grembo un figlio dell´uomo che la sta ripudiando». Trascorso il termine, alla donna vengono affidati i figli. Lei dovrà restituire la dote al marito e sarà riconsegnata al suo tutore. Se si risposerà, i figli torneranno dal padre.
In un matrimonio, ed entro il termine temporale fissato dalla Sharia, il marito può ripudiare e riconciliarsi con la moglie fino a tre volte. Il che significa che gli sono concessi due ritorni. Il terzo "talak" è per sempre. L´Imam dimostra una certa esperienza: «Normalmente, il primo "talak" non è mai definitivo. Ho amministrato casi di coppie che si sono trascinati per anni. Altri, al contrario, che si sono risolti in pochi mesi. Il che succede, soprattutto, quando un uomo della comunità torna nel Paese di origine, si sposa e porta la moglie qui a Milano. Il contesto incide e normalmente fa finire il matrimonio più rapidamente». Anche perché aumenta l´incidenza dell´adulterio, seppure non dichiarato. Quello femminile, nell´orizzonte dell´Imam, non appare neppure esistere, semplicemente perché inconfessabile: «Per un musulmano, bussare alla mia porta per raccontarmi che la moglie lo ha tradito, è impensabile. Essere vittime di adulterio è vissuto come una vergogna. Dunque, si preferisce pronunciare il "talak" presentandomi altre motivazioni». Quello maschile è frequente, ma per la donna, a detta dell´Imam, «praticamente indimostrabile». «Se la moglie accusa il marito di averla tradita deve darne la prova. E non mi è mai accaduto che questa prova la donna sia riuscita o riesca a darla, a meno che l´uomo non sia così sciocco da farsi sorprendere».
Per una donna tradita, la giurisdizione dell´Imam non è di grande aiuto. Né lo è per una donna picchiata tra le mura domestiche. A meno che per aiuto non si intenda quel che l´Imam normalmente fa in questi casi: «Chiamo i tutori. Perché nei casi di violenza, e ce ne sono, la mia esperienza dice che solo loro riescono normalmente a mediare e a mettere fine a certe situazioni». La donna non ha diritto a ripudiare e può sciogliere il contratto matrimoniale solo con il consenso del marito, che normalmente non ha. «Esiste solo una possibilità - dice l´Imam - che nella Sharia si chiama "khula"». Il divorzio per iniziativa della moglie. Un termine di difficile traduzione, che indica l´atto del togliersi le vesti. «La "khula" può essere pronunciata solo da un tribunale islamico regolarmente costituito, perché è il giudice che, qualora ritenga esistano i presupposti del divorzio lamentati dalla moglie, si sostituisce al marito nel prestare il consenso allo scioglimento del vincolo. Dunque, quando mi si sono presentati questi casi, e sempre che si tratti di coniugi regolarmente sposati in Paesi musulmani, il mio consiglio è sempre stato ed è quello di rivolgersi a un tribunale del Paese di origine».
Il tempo dell´Imam è finito. Alla sua porta, la fila di fedeli in attesa di assistenza, spirituale e giuridica, si è fatta lunga. Abdel Amid Shaari, presidente dell´Istituto di viale Jenner, che ha assistito al colloquio, sorride. «Mi sembra già di sentire cosa diranno in molti quando leggeranno la parola Sharia. Ma la libertà religiosa è anche questa. Io non penso all´Inghilterra, perché per arrivare a quel punto, in Italia, di questo passo, ci vorranno cento anni. Ma una comunità è tale anche se può amministrare e sottoporsi volontariamente alla legge del suo Dio. È quello che facciamo».

Da pagina 21, il commento di Renzo Guolo "Una contraddizione reale ma lo Stato è indifferente", che, riconosciuta la diseguaglianza tra uomo e donna introdotta dal diritto islamico, attribuisce ai "fautori di una militante identità culturale italiana"l'opposizione "a un´intesa tra Stato e confessione islamica". Intesa che, pare di capire, secondo Guolo potrebbe sanare le contraddizioni derivanti dal proliferare non regolamentato dei tribunali islamici.
Il vero problema, al contrario, è rappresentato dalla difficoltà di trovare, per siglare un'intesa, interlocutori islamici che si riconoscano in un minimo comun denominatore necessario alla convivenza civile. Denominatore comune che comprenda, certo, il riconoscimento dei diritti delle donne, ma anche una condanna senza eccezioni del terrorismo, estesa dunque anche a quello rivolto contro Israele.
Ecco il testo:


La Sharia in Italia? Una realtà che molti sembrano ignorare ma, non di meno, esiste. Almeno nel campo del diritto di famiglia, come dimostra la pratica in uso in molte moschee della Penisola. Un tipico esito della trasformazione delle società europee in società multiculturali, che altri Paesi hanno recentemente affrontato di petto.
È il caso del Regno Unito che accoglie come forme di arbitrato le sentenze di giudici islamici in cause di divorzio, violenze familiari e dispute ereditarie. Corti sharaitiche britanniche operano, infatti, a Londra, Birmingham, Manchester, Bradford , Edimburgo e Glasgow e fanno capo al network giurisdizionale dello sceicco Siddiqi, del Muslim Arbitration Tribunal di Nuneaton. Possibilità consentita dall´Arbitration Act del 1996, che attribuisce valore legale agli arbitrati nel caso le parti coinvolte conferiscano ai giudici-arbitri il potere di emettere sentenza. Dunque, purché ricorrano tali condizioni, anche il verdetto di una corte islamica può essere recepito da un tribunale ordinario del Regno o dall´Alta Corte. Prassi approvata, con grande scandalo in riva al Tamigi, anche dall´arcivescovo di Canterbury Rowan Williams, che si è pubblicamente espresso a favore del riconoscimento della Sharia nel Regno.
Probabilmente per una naturale tendenza a considerare le norme religiose superiori a quelle positive. Sicuramente, a quanto ha dichiarato, perché ritiene che parte dei cittadini britannici, molti dei quali sono musulmani, non si riconosca nel sistema legale nazionale.
Il presule anglicano ritiene, dunque, che per evitare problemi di coesione sociale sia preferibile non mettere i musulmani davanti alla drastica alternativa tra lealtà alla religione o allo Stato. A patto che il riconoscimento non si spinga a recepire l´intero corpus della Sharia, in particolare degli aspetti, come le pene corporali o la legittimazione di forme oppressive sulle donne, contrarie ai diritto fondamentali dell´uomo. Soluzione, quella adottata del Regno Unito, impensabile fuori dal modello multiculturalista locale, che privilegia il riconoscimento della differenza culturale, e dei gruppi etnici e religiosi che la esprimono, come elemento costitutivo dell´identità del singolo.
In Italia, invece, la Sharia "matrimoniale" non gode di alcun riconoscimento ma è un dato di fatto. Riguarda i musulmani poligami, che si sono risposati nel loro Paese d´origine e portano con sé, oltre che il loro "statuto personale", anche la nuova moglie. O quelli che intendono sposarsi nel Belpaese, ma non vogliono farlo davanti all´ufficiale di stato civile o ricorrere al "matrimonio consolare". Entrambe i riti sono ritenuti forme "laiche" e non "religiose" di matrimonio. Naturalmente, il matrimonio in moschea non produce alcun effetto civile: le coppie sposate dall´Imam sono assimilabili a coppie di fatto. Meri conviventi per lo Stato italiano, che dunque formalmente se ne disinteressa; mentre marito e moglie sono pubblicamente tali per la comunità. Una situazione che implica un certo dislivello di diritti tra uomo e donna, sancito dalla giurisprudenza sharaitica: nella potestà sui figli, nella possibilità di sciogliere il matrimonio, nei diritti ereditari. Constatazione destinata a turbare i sinceri sostenitori dell´eguaglianza dei diritti e di genere, così come gli intransigenti, e spesso strumentali, fautori di una militante identità culturale italiana. Gli stessi, questi ultimi, che si oppongono a un´intesa tra Stato e confessione islamica, la seconda per numero di fedeli in Italia e la sola priva di quello strumento giuridico vanificando, così, ogni possibilità di regolamentare il matrimonio religioso islamico in Italia secondo principi che non siano incompatibili con il nostro ordinamento e garantiscano diritti eguali per tutti. Del resto, non si può avere la botte piena e la moglie ubriaca.

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