La memoria del razzismo fascista e il rischio dei gruppi neonazisti nell'Europa dell'est
Testata: La Repubblica Data: 07 dicembre 2008 Pagina: 24 Autore: Corrado Augias - Andrea Tarquini - Leonardo Coen Titolo: «Il manifesto sulla razzia e chi lo firmò - Neonazisti e ultrà La nuova Europa ha un cuore nero - La deriva inziata dai nazionalisti russi»
"Il manifesto sulla razzia e chi lo firmò " è al centro della lettera di un lettore e della risposta di Corrado Augias sulla REPUBBLICA del 7 dicembre 2008, a pagina 24:
Caro Augias, il prof Giovanni Maria Flick, al convegno dell’Accademia Nazionale delle Scienze sulle “Leggi antiebraiche del 1938 e la comunità scientifica italiana”, dedicato al Premio Nobel Rita Levi-Montalcini, ha detto tra l’altro: «Quanti devono nascondere la realtà, per manipolare il consenso e conculcare la verità dei fatti, hanno bisogno di una scienza sottomessa, incapace di fornire interpretazioni del reale. Per dirla con Nietzsche, “la scienza non pensa”, e se il potere illiberale e violento se ne impossessa, diventa storia di pregiudizi e dogmi, sostenuti con tenacia, combinati con l’intolleranza e il fanatismo». Nel triste anniversario del “Manifesto sulla razza” e delle terribili leggi razziali, avrei piacere di conoscere i motivi che hanno permesso ai dieci “scienziati sottomessi“, ideatori del Manifesto (Lino Businco, Lidio Cipriani, Arturo Donaggio, Leone Franzi, Guido Landra, Nicola Pende, Marcello Ricci, Franco Savorgnan, Sabato Visco, Edoardo Zavattari) di mantenere la cattedra universitaria e i loro incarichi scientifici, anche dopo la caduta del fascismo. Il loro “lavoro” ha irresponsabilmente “avallato” scientificamente la deportazione di migliaia di persone e di tanti bambini. Perché, nessun governo ha mai sollevato il problema ? Andrea Sillioni Bolsena (Vt) a.sillioni@yahoo.it
Per rispondere alla giusta domanda del signor Sillioni ho chiesto l’opinione del prof Emilio Gentile, tra i maggiori storici del fascismo, formatosi alla scuola di Renzo De Felice e George Mosse. Tento di riassumere, in modo di necessità sommario, il suo parere: i professori che firmarono il Manifesto della razza vennero tutti reintegrati dopo la fine del Fascismo, alcuni per amnistia altri perché sostennero che la firma era stata carpita tradendo la loro buona fede. Di uno dei più famosi, Nicola Pende, lo storico Giorgio Israel ha detto che sarebbe ugualmente sbagliato sia assolverlo sia trasformarlo nel simbolo della politica razziale fascista, premessa dei terribili eventi successivi all’8 settembre ’43. Pende, che per altri aspetti viene descritto ricco di umanità, era stato un fautore convinto delle teorie razziste al punto da affermare (Taranto, 1940): «È lo spirito ebraico che può nuocere allo spirito della nostra razza; anche pochi semiti possono inquinare la vita di tutta una nazione». Anche coloro che (a loro modo) ritrattarono, lo fecero non perché dissentissero dal razzismo fascista ma solo per la qualità delle motivazioni per dire così ‘scientifiche’ contenute nel Manifesto. Dopo la guerra si verificò l’assurdo che professori ebrei a suo tempo allontanati dalla cattedra, si ritrovarono all’università in soprannumero accanto a coloro che avevano contribuito a farli espellere. La stessa legislazione antisemita venne abrogata con lentezza anche perché le alte gerarchie cattoliche in un primo tempo si dissero contrarie ad eliminare tutte le leggi contro gli Ebrei emanate durante il fascismo.
A pagina 30 del quotidiano, il reportage di Andrea Tarquini "Neonazisti e ultrà La nuova Europa ha un cuore nero":
A Budapest sfilano in centro indossando l´uniforme nera, sventolano i gagliardetti delle Croci frecciate alleate di Hitler, giurano di salvare la patria dagli zingari, dal capitalismo e dagli ebrei. A Praga contattano ogni giorno i loro camerati tedeschi della Npd neonazista, e spesso affrontano la polizia in violenti scontri di guerriglia urbana. A Bratislava il loro partito è addirittura al governo, partner preferito ai democristiani per formare una coalizione dal premier socialdemocratico-populista Robert Fico. Europa centrale, inverno 2008: mentre il più importante dei nuovi membri dell´Unione Europea, la Polonia, è una solida democrazia, una società dalla cultura democratica diffusa nella sua coscienza collettiva e dall´economia ancora in boom, in altri tre paesi membri della Ue, tre giovani democrazie risorte dopo mezzo secolo di comunismo e di colonialismo sovietico (Ungheria, Repubblica Cèca, Slovacchia), il neonazismo non è più solo uno spettro, né la minaccia violenta di minoranze arrabbiate ma marginali: è realtà quotidiana, è un modo di pensare che si diffonde nei salotti buoni, è una forza politica che ha imparato a sfidare la libertà sia con la violenza di piazza sia con successi elettorali e coalizioni. Diciannove anni dopo la caduta della Cortina di ferro, quelle tre giovani democrazie appaiono infettate da una voglia di ordine diventata mostro. E il mostro è un virus contagioso: nell´Europa senza frontiere, i successi magiari, cèchi e slovacchi possono dare esempio e forza ai suoi adepti ovunque nell´Unione. L´Ungheria è il caso più appariscente della nuova sfida all´Europa. Jobbik, cioè "i migliori", si chiama il partito. Come sempre accade al fascismo, due volti vi convivono, il doppiopetto e il manganello. Il doppiopetto sono l´elegante look sportivo - camicia button down e pullover inglese - del suo leader Gábor Vona, o gli abiti chic della bionda, giovane, attraente Krisztina Morvai, avvocato e docente di giurisprudenza, ex attivista per i diritti delle donne e delle minoranze, convertita al sogno della destra nazionale. Il manganello si chiama Magyar Gárda, "guardia ungherese". È la milizia paramilitare del partito, conta oltre duemila aderenti, ma presto supererà i settemila. È organizzata in compagnie e reggimenti, i suoi membri entrandovi prestano giuramento di fedeltà assoluta come si fa in un esercito regolare. E si addestrano alle arti marziali e al tiro con le armi da fuoco. Lo sfondo nazionale è desolante. Diciannove anni dopo la fine del comunismo, l´Ungheria è un´economia in crisi e soprattutto uno Stato sulla soglia della bancarotta. Solo iniezioni di liquidità somministrate in extremis dal Fondo monetario internazionale e dall´Unione Europea hanno salvato il governo socialdemocratico (postcomunista) del premier Péter Gyurcsany, ma il malcontento rimane. Fa da sedimento a una simpatia sempre più diffusa per l´ultradestra, ha avvertito di recente Paul Lendvai, decano dei corrispondenti del Financial Times, gentiluomo ungherese fuggito a Occidente durante il comunismo che da Vienna, nei decenni della Guerra fredda, era una delle fonti più attendibili su qualsiasi cosa accadesse o si preparasse nell´"altra Europa". Altre voci autorevoli sono purtroppo d´accordo: odio xenofobo, discriminazione, diffidenza verso minoranze e diversi, spiega la sociologa Maria Vasarhely, sono sempre più diffusi in ampi strati della popolazione. Venti ungheresi su cento, avverte il suo collega Pal Tamás, sui grandi temi della politica e della vita la pensano come l´ultradestra, e trenta su cento, secondo una sua indagine scientifica, sono da considerare antisemiti. Manganello e doppiopetto agiscono in sinergia, nell´Ungheria della crisi, conquistano la ribalta ogni giorno nella Budapest splendida ma dove la nuova povertà e il degrado urbano, con troppe facciate di palazzi asburgici diroccate anziché risanate come in Polonia, mostrano che qualcosa non va. A Hoesoek Tére, la piazza degli eroi, luogo-simbolo della nazione, la Magyar Gárda sfila spesso e volentieri. Oppure conduce giorno e notte pattuglie, per intimidire gli zingari. O suoi simpatizzanti lanciano escrementi, pietre e uova marce contro il teatro della comunità ebraica. «Il problema dei senzatetto e degli zingari si può risolvere diffondendo batteri della tubercolosi», affermano i suoi ultrà, «perché dobbiamo difenderci». Vona e la signora Morvai no, non giungono a tanto. Ma affermano a ogni comizio: «Chi sono gli zingari? Amano l´Ungheria o no? Hanno voglia di lavorare? Vogliono adattarsi e assimilarsi o no? Possiamo fidarci?». E più spesso ancora diffondono l´idea che nel dopo Guerra fredda i politici dei partiti democratici hanno «trasformato l´Ungheria in un Paese sconfitto, una colonia dell´Occidente». Siamo a un passo dal mito mussoliniano della "vittoria mutilata". La Grande Ungheria è il loro sogno, il rifiuto del Trattato di Trianon che nel 1918 tolse ai magiari (parte dell´Impero asburgico) i territori ora slovacchi o romeni è slogan e bandiera. Erano le idee-forza della dittatura dell´ammiraglio Miklos Horthy, alleato di Hitler, e degli estremisti delle Croci frecciate di Imre Szalasi. Ma nell´ex Europa asburgica il nuovo fascismo si diffonde anche dove le tradizioni democratiche dovrebbero essere più solide. Guardiamo poco più a ovest, nella splendida, prospera Praga, capitale di un Paese devastato dal mezzo secolo bolscevico e ora tornato al capitalismo ma anche segnato dalla corruzione e dall´instabilità politica. Il Partito dei lavoratori (Ds, guidato da Tomás Vandas) ha chiare matrici neonaziste e contatti con la Npd tedesca. Qualche settimana fa nella città di Litvinov ci sono voluti oltre mille poliziotti in assetto di guerra per affrontare in una notte di guerriglia urbana almeno settecento squadristi del Ds decisi a dare l´assalto a un quartiere abitato da gitani. I loro slogan sono ancor più duramente anti-occidentali di quelli dei camerati ungheresi: «Alzati, lotta contro il liberalismo», titolava uno degli ultimi numeri di Delnické listy, il loro organo. Il partito neofascista cèco è in prima fila, come i comunisti nostalgici dell´occupazione sovietica, contro i piani Nato sullo scudo difensivo in Cèchia e Polonia per affrontare i missili iraniani. E sull´esempio magiaro, anche nella Repubblica cèca un altro gruppo, il Partito nazionale, ha fondato una sua milizia paramilitare. Guidato da Petra Edelmannova, il partito vuole presentarsi alle elezioni politiche del 2010 proponendo la «soluzione finale della questione degli zingari». Linguaggio senza pudore, che evoca esplicitamente quello del nazismo hitleriano nella «soluzione finale», cioè l´Olocausto. Il governo cèco non vuole restare a guardare, anzi non può permetterselo anche perché tra poco gli toccherà la presidenza di turno dell´Unione Europea. Per cui sta studiando la possibilità giuridica di una messa al bando dei nuovi fascisti. Una possibilità del genere è lontana anni luce a Bratislava, la capitale della Slovacchia. Perché qui Robert Fico, primo ministro e leader del locale partito socialdemocratico (schierato su posizioni di sinistra nazionalpopulista, era stato persino temporaneamente sospeso dal gruppo socialista all´Europarlamento), ha scelto di governare e garantirsi il potere alleandosi non con i democristiano-conservatori bensì con lo Sns, il Partito nazionalista slovacco di estrema destra. Lo guida Jan Slota, politico di provincia che ama abbandonarsi a eccessi alcolici per poi scatenarsi ancor meglio nei comizi. Propone «la frusta» per risolvere (rieccoci) «il problema degli zingari», sogna di diventare europarlamentare per «rendere di nuovo vive le acque marce e sporche di Bruxelles e di Strasburgo». I suoi bersagli preferiti sono, oltre ai gitani, la minoranza ungherese e gli omosessuali. Il premier Fico tace, volta la testa dall´altra parte. Si preoccupa solo di litigare col governo ungherese, perché l´ultima partita di calcio tra squadre dei due paesi, a Dunajska Streda, si è conclusa con una notte di duri scontri tra teppisti magiari e slovacchi, tutti legati alle due ultradestre. E alla fine la polizia slovacca per una volta è intervenuta duramente, ma pestando quasi soltanto i violenti ungheresi. L´unica, debole speranza dell´Unione Europea è questa: che la furia nazionalista dei nuovi fascisti nell´Europa ex asburgica sia talmente virulenta da indurli a volte a considerarsi tra loro nemici mortali anziché alleati. Ma anche in questo il rovescio della medaglia è l´abdicazione del potere statale. Dopo la notte di sangue a Dunajska Streda, la Magyar Gárda ha presidiato e chiuso i valichi di frontiera con la Slovacchia; nessuno glielo ha impedito. I nuovi radicalismi, denunciava l´altro giorno Joseph Croitoru sulla Frankfurter Allgemeine, sono un´ipoteca grave e imprevista sul futuro delle tre giovani democrazie europee. L´epidemia è scoppiata non in paesi lontani, ma all´interno dei confini aperti della Ue e della Nato.
A pagina 31, l'articolo di Leonardo Coen "La deriva inziata dai nazionalisti russi":
Terzo vagone di un convoglio della metropolitana, in viaggio verso la stazione della Biblioteca Lenin, 22 novembre. Tre giovani skinhead circondano un passeggero, sui trentacinque anni. Si chiama Mikhail Altshuller, un cantautore abbastanza noto nella comunità ebraica di Mosca: è infatti il solista e il direttore del "Dona Yiddish Song Group", che gode di ottima reputazione nell´ambiente musicale internazionale, ha pure vinto qualche festival. Uno dei tre si rivolge al barbuto Altshuller e lo apostrofa. Subito dopo, comincia un sistematico e feroce pestaggio: i tre picchiano e gridano slogan nazionalisti. Altshuller finisce all´ospedale. La polizia ferma due sospetti. Pochi giorni dopo, il primo di dicembre, viene trovato il cadavere di un azero di venticinque anni: ucciso a coltellate vicino alla stazione Universitiet, non lontano dalla Collina dei Passeri. Ultimo delitto di una lunga serie di attacchi xenofobi che sinora hanno causato 114 vittime e ferito 357 persone (bilancio aggiornato alla fine di ottobre). Nei primi dieci mesi di quest´anno il numero delle aggressioni a sfondo razzista è cresciuto di una volta e mezzo rispetto al 2007. L´attività di prevenzione della polizia e dell´Fsb, i servizi federali di sicurezza, dunque, non basta ad arginare il fenomeno. I media danno grande risalto al processo che in questi giorni, proprio a Mosca, vede alla sbarra una gang di neonazisti accusati di ventidue omicidi e dodici attentati. La Russia post-comunista è animata da virulenti movimenti di estrema destra che raggruppano un largo spettro ideologico: alcuni fanno riferimento al nazismo, altri al fascismo o al nazional-bolscevismo. Su questi filoni si innescano i movimenti degli skinhead e quelli che si riconoscono nella controcultura giovanile di estrema destra, sino alle correnti neopagane e ariane. Lungi dall´essere arcaica, l´estrema destra russa rivela indirettamente i profondi sconvolgimenti con cui ha a che fare il Paese da due decenni, a partire dalla necessità di riformare una nuova identità collettiva. Secondo alcune stime, i naziskin in Russia sono circa sessantacinquemila: la loro ideologia è profondamente permeata di razzismo, l´attività principale è la caccia all´immigrato (diciassette milioni, di cui cinque clandestini). Gli «intrusi», come vengono bollati gli immigrati, rappresentano la forza lavoro più sfruttata e indifesa. «Uzbeki, kirghizi e tagiki - si legge in un recente rapporto Unicef - sono gruppi a rischio la cui situazione è molto prossima alla schiavitù». Per forza: nella logica xenofoba russa sono i «non slavi», anzi, i «nemici della razza superiore slava». Poco importa se sino a diciotto anni fa facevano parte dell´Unione Sovietica: emancipandosi dalla Russia sono diventati stranieri di serie B perché asiatici. Anche gli stessi cittadini della Federazione Russa, come i daghestani e i ceceni, condividono questo destino di prede. Più della metà degli omicidi a sfondo razziale sono stati commessi a Mosca e nella sua regione. L´altro grande polo xenofobo è rappresentato da Pietroburgo e dalla sua regione, che ha conservato il nome sovietico di Leningrado. Tuttavia, poco alla volta, la piaga si è estesa: dopo aver raggiunto Volgograd, Nizhnij Novgorod, Jaroslav, Kaliningrad, la violenza razzista ha infettato le grandi città della Siberia e dell´Estremo Oriente, dove l´immigrazione è massiccia. Il tamtam è Internet, la "bibbia" era sino a metà degli anni Novanta la rivista Rasato a zero. Oggi le pubblicazioni si sono moltiplicate: Combattente di strada, La volontà russa, La resistenza russa, La resistenza bianca, Martelli, Screwdriver, La Cosa 88 (il numero che in gergo identifica Hitler). Titoli che sono un programma.
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