venerdi 22 novembre 2024
CHI SIAMO SUGGERIMENTI IMMAGINI RASSEGNA STAMPA RUBRICHE STORIA
I numeri telefonici delle redazioni
dei principali telegiornali italiani.
Stampa articolo
Ingrandisci articolo
Clicca su e-mail per inviare a chi vuoi la pagina che hai appena letto
Caro/a abbonato/a,
CLICCA QUI per vedere
la HOME PAGE

vai alla pagina twitter
CLICCA QUI per vedere il VIDEO

Lo dice anche il principe saudita Bin Salman: Khamenei è il nuovo Hitler


Clicca qui






Il Manifesto Rassegna Stampa
07.12.2008 Ma il regista israeliano legge il quotidiano che è felice di finanziare ?
e che è un concentrato di odio per il suo paese ?

Testata: Il Manifesto
Data: 07 dicembre 2008
Pagina: 3
Autore: Elfi Reiter - Michele Giorgio
Titolo: «L'albero del conflitto - Dopo l'embargo, la fuga degli shekel»

Si possono condividere o meno le opinioni espresse dal regista del film "Il giardino dei limoni" Eran Riklis nell'intervista concessa ad Elfi Reiter, e pubblicata dal MANIFESTO del 7 dicembre 2008, con il  titolo "L'albero del conflitto".
Riklis è un israeliano di sinistra, sostenitore appassionato della pace, che vorrebbe per il conflitto israelo-palestinese una soluzione diversa dalla separazione.
Si può pensare che siano opinioni ingenue, o anche pericolose, ma appunto, sono opinioni.
E la storia raccontata da Riklis nel suo film, quella di una donna araba che lotta per non far abbattere per motivi di sicurezza gli alberi del proprio frutteto adiacenti  all'abitazione di un ministro della Difesa israeliano, è, al di là di ogni altra considerazione, una storia possibile soltanto in un contesto di estrema libertà democratica, quale è Israele. Non abbiamo visto il film, ma sembrerebbe proprio, a giudicare dalla trama,  che esso sia lontano dalla demonizzazione di Israele, dalle fandonie di chi scrive di "nuova apartheid" e di razzismo.

Quando però si legge la dichiarazione di Riklis "Sono molto contento che l'incasso del primo giorno di uscita nelle sale italiane de "Il giardino dei limoni" vada a favore del Manifesto" non si può non trasalire e chiedersi se Riklis abbia mai letto il giornale che dice di essere felice di finanziare, che è un concentrato quotidiano di odio per Israele.  Che, speriamo, il regista de "Il giardino dei limoni" non condividerebbe.

Ecco il testo dell'intervista:


Sono molto contento che l'incasso del primo giorno di uscita nelle sale italiane de Il giardino dei limoni vada a favore del manifesto », ci dice entusiasta il regista israeliano Eran Riklis raggiunto al telefono in aeroporto a Londra, in attesa di salire sull'aereo per Tokyo, dopo essere stato ospite del 26˚ Torino Film Festival col suo film, fuori concorso. «Spero sia un enorme successo!». Raccogliamo l'augurio perché trasmette la speranza di libertà che emerge dal suo film (nelle sale il 12 dicembre), in cui racconta la lotta disperata di una donna palestinese per i propri limoni piantati dal padre, e quindi per la terra, la storia, contro l'umiliazione quotidiana e diffusa da parte di chi era arrivato nel 1947 a occupare un territorio pretendendolo come suo e azzerando così la vita di chi in quella terra ci ha vissuto e ci vive. Come nasce l'idea per la stupenda metafora del conflitto tra Israele e Palestina? Da una storia vera riportata da un giornale, un trafiletto su una donna che aveva fatto causa al ministro della difesa. Ho fatto subito delle ricerche appassionandomi al soggetto per vari aspetti: la donna, il ministro, quindi un personaggio pubblico della politica, gli alberi. Non volevo una metafora semplicista con personaggi e situazioni ovvie, ma andare più in profondità toccando le emozioni. Era davvero un ministro della difesa nella storia originale con una casa vicino ai territori? Sì, il fatto riguardava una donna anziana che aveva fatto causa al ministro che abitava vicino al suo campo di ulivi, poi sradicati. Non è così strano per uomini politici o cittadini israeliani abitare vicino al confine, che in fondo non è un confine vero, anzi oggi è il muro. Penso che tutti possano abitare nei luoghi dove vogliono, psicologicamente parlando, e il ministro dice nel film che non intendeva distruggere... Ma poi cambia idea... È chiaro che un ministro ha bisogno della cinta di sicurezza, sono i servizi che lo impongono, ma lui si impunta sul diritto di abitare dove vuole e inizialmente non pensa di abbattere gli alberi, ma poi c'è il rischio di attentati. Insomma ha inizio quel ciclo infinito che alimenta l'intera situazione intricata nel Medio Oriente, violenza, paura, violenza psicologica che chiama altra violenza, eccetera. Il mio film non è sulla violenza, ho voluto andare oltre. Il mio interesse era verso altri elementi: cosa ne è del paese, della terra, dei sentimenti di chi ci vive o ci ha vissuto? Se guardiamo il conflitto israeliano/ palestinese dal punto di vista storico è una scia di sangue che ruota attorno alle religioni, la terra, le origini, le differenze culturali. Ci possono essere tante parole per mostrare questo gap, io l'ho voluto vestire così. Nel film la moglie del ministro gli ricorda che «stavolta la colpa è nostra». Noi del mondo occidentale cerchiamo sempre la colpa negli altri, le cose accadono ma sono lontane, riguardano altri e toccano altri. Tutto ciò è terribilmente triste, perché bisogna che ognuno si assuma le proprie responsabilità nella vita e nel mondo. Per questo lei dice così, perché tutto dipende da come loro gestiscono la situazione, ed è la prima volta nella sua vita che prende coscienza di se stessa e di cosa le accade attorno. Questo è il senso del film: mostrare situazioni che non conosciamo per mettere il focus su aspetti diversi, per sviluppare la consapevolezza critico-sociale. Inizialmente lei vede solo la bellezza dei limoni, poi realizza che dietro ci sono tradizione culturale, dedizione personale, connessione alla vita di altre persone. I personaggi forti sono due donne, Salma Zidane, la donna palestinese che cita il ministro fino alla corte suprema, e la moglie del ministro, entrambe compiono un'evoluzione personale. Sì, sono facce della stessa persona, forte, responsabile, entrambe scoprono la loro individualità all'interno di società fortemente marcate, per cui c'è una intesa silente tra le due, quasi una connessione. Ho cercato di mostrare situazioni di vita per non rimanere intrappolato nel solo racconto di una donna che combatte lo stato israeliano per i propri diritti, e dove tutto il resto è perfetto. Ho inserito la solitudine nelle loro vite, l'una sposata col ministro, sola, quasi come in una prigione, e l'altra, vedova di un uomo palestinese impegnato, sottomessa alle leggi morali della sua comunità. Il film è in gran parte finanziato da tv e istituzioni europee... È una coproduzione tra Germania, Israele e Francia, dove i fondi europei non sono maggioritari ma paritari, come per il precedente La sposa siriana . Se vuoi fare film di un certo livello e il budget si fa alto sei costretto a cercare il sostegno in Europa. Il giardino dei limoni è stato visto in Israele? Sì, nel marzo scorso ma non è stato un successo, anzi, col senno del poi dico che il film ha faticato a trovare il suo pubblico. Dicono che è troppo politico e pro-palestinese, quando per me non è un film politico nel vero senso del termine, ma tocca argomenti più umani. Lei è nato a Gerusalemme, ci può raccontare la città? Ci sono solo nato, ho vissuto in giro tra Canada, Usa e Brasile, e una piccola città nel deserto del sud in Israele. Questo mi ha dato un buon equilibrio nella vita, quasi sofisticato direi, tra la drammaticità della situazione generale e il senso dell'umorismo, ma soprattutto una mente aperta, uno spirito internazionale e un grande rispetto per le persone più diverse. Che dice della situazione politica in Israele? La vedo confusa, sempre più persone vogliono una soluzione per questa follia omicida che perdura da troppo tempo. La gente è stanca, prende le distanze, vorrebbe semplicemente vivere bene. Questo però porta a quel che per me è il grande pericolo e al processo attualmente in corso, la separazione, che si materializza nel muro sorto nel paese. E torniamo al cuore del mio film: l'indifferenza rispetto alle persone. Ciò che mi deprime è che nell'ambiente politico in Israele non si sta affacciando nulla di nuovo, ma sono anche convinto che le cose possono cambiare, come negli Usa di Obama. UN FILM PER AIUTARE IL MANIFESTO La Teodora Film devolverà gli incassi del primo giorno di programmazione, di «Il giardino dei limoni» al nostro giornale come forma di sottoscrizione. Il film uscirà nelle sale il 12 dicembre. IL REGISTA Eran Riklis è nato nel 1954 a Gerusalemme, ha frequentato la National Film School di Beaconsfield in Gran Bretagna diplomandosi nel 1982. Due anni dopo gira il suo primo thriller politico On a clear day you can see Damascus ; nel 1992 è ai festival di Berlino, Mosca e Venezia con Cup Final . Un anno dopo vince due nomination agli Academy Awards in Israele con il successivo Zohar che racconta ascesa e caduta di Zohar Argov, cantante israeliano. Nel '99 vince il primo premio al festival di Monaco di Baviera con Borders , documentario sui confini, e passando per Temptation nel 2002 arriva il grande successo con La sposa siriana che si aggiudica il premio del pubblico a Locarno e il premio Fipresci della critica internazionale a Montréal. Nel 2008 appare Etz Limon che in Italia si chiama Il giardino dei limoni . Da qualche anno Eran Riklis svolge anche l'attività di produttore, «principalmente dei miei film, ma l'ho fatto anche per altri, soprattutto amici. Quando mi piace un progetto, dò volentieri il mio aiuto anche per questioni semplicemente umane». Gli piace l'approccio di Amos Gitai, altro cineasta israeliano che indaga la complessità delle due culture, e secondo lui lo fa «con tocco intrigante».

Un esempio quasi comico delle disposizione del quotidiano comunista a incolpare Israele sempre e comunque, con implacabile scadenza quotidiana, è l'articolo di Michele Giorgio a pagina 10 "Dopo l'embargo, la fuga degli shekel" che imputa la mancanza di valuta israeliana a Gaza al fatto che "i commercianti palestinesi da tempo" sarebbero "costretti a pagare subito e in contanti i prodotti acquistati presso i grossisti israeliani". Costretti ? E' possibile che, nella difficile situazione creata a Gaza dal golpe di Hamas e dall'aggressione a Israele con i razzi kassam, i commercianti israeliani tutelino i propri interessi chiedendo pagamenti in contatti. Evidentemente, però, non costringono nessuno. Anche gli acquirenti palestinesi agiscono volontariamente, nel proprio interesse.

Ecco il testo:

Sono i giorni del pellegrinaggio (hajj) alla Mecca e l'intero mondo islamico da domani e fino a giovedì celebrerà la festa dell'Adha. A Gaza però ben pochi potranno permettersi carne di pecora in abbondanza e regali per i bambini, come vuole la tradizione, non solo a causa del durissimo embargo attuato da Israele e della povertà diffusa. Nella Striscia mancano tante cose ma da qualche tempo scarseggiano anche gli shekel, la moneta israeliana usata dai palestinesi. I due governi rivali, quello di Hamas e quello dell'Anp, hanno potuto versare lo stipendo solo ad una parte dei loro «dipendenti» perché le banche non hanno in cassa sufficienti banconote. Sui motivi della penuria di shekel si sono fatte varie ipotesi. Qualcuno vede il problema nei tunnel sotterranei, poiché al flusso di merci in entrata a Gaza corrispondono contanti in uscita. L'economista Omar Shaban però ha ridimensionato il peso dei tunnel visto che i traffici avvengono in dollari e non in shekel. Più concreta è la possibilità che milioni di shekel stiano lasciando Gaza in direzione di Israele. I commercianti palestinesi da tempo sono costretti a pagare subito e in contanti i prodotti acquistati presso i grossisti israeliani. Non festeggeranno l'Adha anche 250 famiglie palestinesi che attendevano il ritorno a casa dei loro congiunti in carcere in Israele. Fonti dell'Anp hanno fatto sapere ieri che il premier israeliano Olmert si è rimangiato la promessa di liberare 250 detenuti politici (su oltre 11mila) come gesto di «buona volontà» verso il presidente Abu Mazen, a causa delle «pressioni» di coloro che considerano inopportuno rimettere in libertà palestinesi mentre si avvicinano le elezioni del 10 febbraio e non si registrano progressi nelle trattative per la liberazione del caporale Ghilad Shalit, catturato piu' di due anni fa da un commando palestinese e prigioniero a Gaza.

Per inviare la propria opinione alla redazione del Manifesto cliccare sul link sottostante


redazione@ilmanifesto.it

Condividi sui social network:



Se ritieni questa pagina importante, mandala a tutti i tuoi amici cliccando qui

www.jerusalemonline.com
SCRIVI A IC RISPONDE DEBORAH FAIT