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Il Foglio Rassegna Stampa
04.12.2008 Le montagne del Waziristan, le trame dell'intelligence pakistana, l'economia globale
tre fronti della guerra al terrore

Testata: Il Foglio
Data: 04 dicembre 2008
Pagina: 5
Autore: Carlo Panella - Daniele Raineri - Alessandro Corneli
Titolo: «Per disinnescare il Pakistan - Terrore e quattrini»

Il FOGLIO del  4 dicembre 2008 pubblica a pagina 3 dell'inserto le analisi di Carlo Panella e Daniele Raineri sui passi necessari "Per disinnescare il Pakistan".

Ecco il testo di Panella:

Inizio non fortunato per il mandato di Hillary Clinton. La coincidenza tra la notizia della sua nomina e la strage di Mumbai le impone infatti di iniziare a lavorare a un dossier che rimanda proprio ai marchiani errori commessi dal marito Bill Clinton – e non da George W. Bush –- che le impedirà, per di più, di sviluppare due punti cardine della “svolta” di Obama. Nel contrasto del network terrorista indopachistano, infatti, la Clinton non potrà affatto applicare la parola d’ordine “mai da soli” e dovrà agire unilateralmente. Soprattutto, dovrà privilegiare – e da subito – una logica di contrasto militare, accantonando tutti i buoni propositi di “agire sulle cause”, o tramite il “dialogo”. La lucida analisi pubblicata martedì sul Washington Post da Robert Kagan delinea un quadro che obbligherà Obama a ripercorrere le linee dell’Amministrazione Bush, oppure a non fare nulla. Ipotesi – per inciso – da non escludere a priori. Fu infatti proprio per scelta di Bill Clinton che la Cia continuò a delegare solo all’Isi pachistano e al Mukhabarat saudita le gestione del dossier Afghanistan, sino al 2001. Fu a causa di quella incauta delega che i due servizi islamici crearono e organizzarono il movimento dei talebani e lo portarono alla vittoria nel 1996. Sempre per scelta di Clinton, gli Usa non fecero nulla negli anni successivi al primo attentato alle Twin Towers del 1993, e limitarono l’azione di contrasto a Osama bin Laden e ai talebani a una serie infinita di inutili mozioni Onu. Robert Kagan, col suo consueto pragmatismo, ha delineato sul Washington Post l’unica proposta praticabile per risolvere non solo la crisi indo-pachistana, ma anche la pessima situazione in Afghanistan: “L’opzione migliore per impedire che il mondo sia tenuto in ostaggio da attori non statali che operano dal Pakistan potrebbe essere quella di internazionalizzare la risposta. La comunità internazionale dovrebbe dichiarare che parti del Pakistan sono diventate ingovernabili e una minaccia alla sicurezza internazionale. Bisognerebbe dare vita a una forza internazionale che lavori con i pachistani per sradicare i campi terroristici in Kashmir così come nelle aree tribali. Questo avrebbe il vantaggio di prevenire un confronto militare diretto tra India e Pakistan e potrebbe anche salvare la faccia al governo pachistano, dal momento che la comunità internazionale dovrebbe aiutare il governo centrale a ristabilire la sua autorità nelle aree in cui l’ha persa”. L’urgenza di questa strategia è determinata da un dato incontrovertibile: il Pakistan – quello guidato da Musharraf, come quello guidato oggi dal corrotto Zardari – non è affatto un alleato valido nel contrasto al terrorismo, per la semplice ragione che ampi settori dei suoi più alti vertici militari e dei servizi sono in realtà vuoi i burattinai, vuoi i complici dei terroristi afghani e pachistani. Il lungo e perfetto training militare dei commandos di Mumbai, la facilità di movimento e azione in Pakistan e i loro contatti telefonici non criptati con centrali pachistane ne sono la definitiva prova. Ieri il ministro degli Esteri indiano Pranab Mukherjee, dopo l’incontro a New Delhi con Condoleezza Rice, è stato esplicito: “Ho informato il ministro Rice che non vi sono dubbi sul fatto che gli attacchi a Mumbai siano stati perpetrati da individui arrivati dal Pakistan e che il loro ispiratore sia in Pakistan”. Accuse gravissime, a cui fanno da contraltare dichiarazioni di parte pachistana di evidente ambiguità. La marcia indietro del presidente Zardari e del premier Gilani sulla decisione di inviare – come assicurato al premier indiano Singh – il direttore dell’Isi in India per aiutare le indagini è stata infatti seguita da altre prese di posizione che marcano una evidente volontà di non collaborazione. Ultimo, il rifiuto dello stesso Zardari ad estradare – come richiesto dall’India – una serie di leader terroristi riparati in Pakistan, accompagnata dalla richiesta offensiva di ricevere dall’India le prove a loro carico per processi da tenersi in Pakistan. Una violazione del diritto internazionale – i reati addebitati ai terroristi dall’India sono stati compiuti sul suo territorio – e ennesima conferma di una leadership pachistana che agisce sotto dettatura dei vertici militari pachistani e dell’Isi. Il problema per la Clinton è che è impossibile ipotizzare un consenso multilaterale al punto focale della strategia delineata da Kagan – una forte azione militare su territorio pachistano – anche se si ipotizzasse non già un intervento diretto americano o Nato in Waziristan e Kashmir, ma solo una politica di dure sanzioni politicoeconomiche contro Islamabad nel caso non provvedesse a eliminare i potentissimi santuari terroristi radicati in territorio pachistano (e la sua intenzione di non farlo è ormai comprovata, come dimostra il successo della fuga di Osama bin Laden). Non solo in sede Onu, ma anche in un qualsiasi altro contesto in cui abbiano peso i voti dei paesi arabo-musulmani, una forte azione coercitiva sul Pakistan, e ancor meno un intervento militare di “cristiani” in Pakistan, verrebbero bocciati e letti come un intollerabile favore all’India e al rafforzarsi di una sua incontrastata egemonia regionale. Obama potrà forse mutargli il nome, inserirla in un altro contesto concettuale, ma alla fine per sconfiggere quell’hub del terrorismo islamico che è il Pakistan dovrà ricorrere a una alleanza internazionale che avrà tutte e solo le caratteristiche della “Coalizione dei volonterosi”.

E quello di Raineri:

Ormai è il solito schema. Come ad agosto. Il ministro dell’Informazione Sherry Rahman dice davanti ai giornalisti quello che sanno tutti, che i servizi segreti (Isi) “contengono ancora elementi pro talebani: dobbiamo identificare chi sono e sbatterli fuori”. Salvo dire due ore dopo che no, sono problemi che appartengono al passato del paese e “non ci sarà nessuna purga”. A settembre il governo civile avoca a sé il controllo sui servizi segreti, ma è costretto a fare retromarcia immediata dopo quarantott’ore: “C’è stato un malinteso, il controllo resta tutto di competenza delle forze armate”. Venerdì scorso Islamabad prova a rassicurare il governo di Nuova Delhi, che accusa i servizi segreti pachistani di avere collaborato ai tre giorni di guerriglia urbana e stragi di Mumbai: “Mandiamo giù il capo dell’Isi in persona, il generale Ahmed Shuja Pasha”. La notizia non dura nemmeno un giorno, il capo dell’Isi resta in silenzio nella sua città guarnigione di Rawalpindi. Succede sempre così. Il Pakistan di buona volontà ammette le sue colpe e promette riparazione. Poi dalla pancia vera e profonda – che non ha mai cambiato idea sull’alleanza con gli estremisti, “i nostri ragazzi” – arriva il segnale opposto, il contrordine che non si può rifiutare. Due giorni fa Nuova Delhi ha chiesto al Pakistan l’estradizione di venti terroristi accusati di attività contro l’India. I pachistani hanno svicolato in malo modo, dicendo “dateci le prove, li processeremo noi qui”. E’ uno schiaffo diplomatico a un paese in lutto, che ieri ha scoperto altre due bombe nascoste nella stazione ferroviaria di Mumbai. Per queste ragioni la proposta fatta martedì da Robert Kagan con un editoriale sul Washington Post – spedire un contingente militare internazionale nelle aree del Pakistan non controllate dal governo – coglie alcuni punti certamente veri, ma è poco realizzabile. E’ vero che gli indiani oggi sono feriti come me gli americani dopo l’11 settembre, e dal proprio governo prentendono azioni punitive e non più soltanto parole (“l’opzione militare è sul tavolo”, dicono fonti del governo al Times of India). E’ vero che a nessuno importa della sovranità territoriale di un paese quando in gioco c’è la sicurezza comune. Ma una Unifil del Waziristan che aiuti i pachistani a fare piazza pulita degli estremisti e delle loro basi sicure nelle aree tribali a nordovest e nella regione del Kashmir potrebbe essere un gesto inutile e che attira il ridicolo, quello che i militari americani chiamano “pushing on a string”. Spingere un filo. Il filo lo puoi spingere finché ti pare, ma non ottieni nulla, perché dovresti piuttosto tirarlo. Chiedere ai pachistani di fare oggi e in compagnia di un corpo di spedizione internazionale quello che non hanno fatto nemmeno nel 2001 con gli americani feriti e con la faccia feroce per i grandi attentati è una richiesta poco praticabile. Al contrario, la collaborazione del Pakistan con estremisti e talebani è ancora viva e praticata. Tre giorni fa i talebani hanno offerto al governo un cessate il fuoco: “Se gli indiani attaccano, saremo dalla vostra parte, schierati con tre milioni di uomini dei clan pashtun. Abbiamo anche cinquecento volontari suicidi pronti a entrare in India”. Sul giornale in lingua urdu Roznama Jang – non sulle agenzie – i generali pachistani hanno accettato l’offerta e “come primo passo hanno definito i comandanti talebani ‘patrioti del Pakistan’”. Il fatto che ora ci sia un governo civile eletto con meno brogli del solito al posto del generale-presidente Pervez Musharraf non incide più di tanto: anzi, forse complica la situazione. Ufficiali dell’esercito americano in Afghanistan me gli americani dopo l’11 settembre, e dal proprio governo prentendono azioni punitive e non più soltanto parole (“l’opzione militare è sul tavolo”, dicono fonti del governo al Times of India). E’ vero che a nessuno importa della sovranità territoriale di un paese quando in gioco c’è la sicurezza comune. Ma una Unifil del Waziristan che aiuti i pachistani a fare piazza pulita degli estremisti e delle loro basi sicure nelle aree tribali a nordovest e nella regione del Kashmir potrebbe essere un gesto inutile e che attira il ridicolo, quello che i militari americani chiamano “pushing on a string”. Spingere un filo. Il filo lo puoi spingere finché ti pare, ma non ottieni nulla, perché dovresti piuttosto tirarlo. Chiedere ai pachistani di fare oggi e in compagnia di un corpo di spedizione internazionale quello che non hanno fatto nemmeno nel 2001 con gli americani feriti e con la faccia feroce per i grandi attentati è una richiesta poco praticabile. Al contrario, la collaborazione del Pakistan con estremisti e talebani è ancora viva e praticata. Tre giorni fa i talebani hanno offerto al governo un cessate il fuoco: “Se gli indiani attaccano, saremo dalla vostra parte, schierati con tre milioni di uomini dei clan pashtun. Abbiamo anche cinquecento volontari suicidi pronti a entrare in India”. Sul giornale in lingua urdu Roznama Jang – non sulle agenzie – i generali pachistani hanno accettato l’offerta e “come primo passo hanno definito i comandanti talebani ‘patrioti del Pakistan’”. Il fatto che ora ci sia un governo civile eletto con meno brogli del solito al posto del generale-presidente Pervez Musharraf non incide più di tanto: anzi, forse complica la situazione. Ufficiali dell’esercito americano in Afghanistan dicono al quotidiano britannico Times che da quando il nuovo governo s’è insediato – sulle rovine dei due immani attentati contro Benazir Bhutto, e per questo poco sospettabile di intese con gli estremisti – “gli attacchi contro di noi sono aumentati del sessanta per cento”. Il governo di Ali Asif Zardari controlla ancora meno di Musharraf i quadri di medio-basso livello, la pancia talebana da cui salgono le minacce e da cui partono gli ordini d’attacco. Quando ad agosto Zardari è andato a Washington, i membri della sua delegazione sono usciti rossi in viso dalla Casa Bianca. Hanno offerto collaborazione nelle indagini sull’attentato contro l’ambasciata dell’India a Kabul (un attentato in cui secondo il New York Times gli americani hanno raccolto così tante prove sulla responsabilità dell’Isi, incluse intercettazioni telefoniche e l’arresto di una spia pachistana in Afghanistan, che si chiedono se l’Isi non abbia lasciato apposta tante tracce in giro, come orgogliosa rivendicazione). Persino il presidente Bush però gli ha riso in faccia. “Scambiare informazioni con voi? Ogni volta che vi diamo informazioni, i cattivi scappano”. Così, poco conta che il segretario di stato americano, Condoleezza Rice, ieri sia volata assieme al capo di stato maggiore Mike Mullen a Nuova Delhi per tenere separati i due contendenti e appianare le tensioni (e promettere vedremo che cosa in cambio). La pancia filotalebana e filo Lashkar-e-Taiba ha delle ragioni che il governo civile non conosce. Secondo il giornalista investigativo Syed Saleem Shahzad, pachistano, l’attentato contro Mumbai in origine doveva essere un attacco a basso profilo in Kashmir contro gli indiani, già preparato da parecchi mesi proprio in una sezione minore dell’Isi a Karachi (il porto di partenza dei terroristi). Ma poi i piani e i volontari suicidi sarebbero stato diretti contro Mumbai, per volontà di elementi estremisti implicati nel piano. Questa collaborazione terra terra fra sezioni e “patrioti” è il filo: però è da tagliare.

A pagina 4 dell'inserto l'articolo di Alessandro Corneli "Terrore e quattrini" analizza l'attentato di Mumbai da una prospettiva per lo più trascurata dall'informazione: quella delle sue conseguenze economiche, tutt'altro che inintenzionali, secondo l'autore.

Ecco il testo:


New York, Londra, Mumbai: tre simboli dell’economia globale, tre obiettivi del terrorismo il quale sa perfettamente che, colpendo in un punto, come su una tela di ragno, le vibrazioni si diffondono in ogni parte del sistema. E’ la rete. E al Qaida significa, appunto, la rete. L’attacco a Mumbai sembra essere stato pianificato circa sei mesi fa: quindi nessun “avvertimento” a Barack Obama, ancora in lotta con Hillary Clinton, ma la scelta temporale era in funzione di un periodo di transizione previsto al vertice degli Stati Uniti, legati all’India da un accordo strategico sul piano nucleare: transizione legata al passaggio di poteri tra George W. Bush e il suo successore, poco importa chi fosse stato. C’è di più: la progettazione dell’attentato multiplo – analogo a quelli di New York e di Londra – che avrebbe dovuto fare molti più morti, è avvenuta a metà strada tra la crisi dei mutui subprime dell’agosto 2007 e lo scoppio della bolla finanziaria di settembre e ottobre scorsi. Non è un caso: gli strateghi del terrore non curano soltanto la logistica degli attacchi, scegliendo gli obiettivi, ma anche la tempistica: scelgono il momento in cui possono produrre il danno maggiore non solo a livello locale ma anche a livello globale. Se c’è qualcosa di globale nel mondo, questa è l’economia reale, fatta di produzione di beni e di scambi, e l’economia finanziaria. Alberto Abadie, professore alla Harvard University, è tra coloro che hanno analizzato gli effetti degli attacchi terroristici sull’economia. Questi non sono quantitativamente rilevanti in modo diretto, a parte le perdite umane e quelle di manager e dirigenti di imprese con larga esperienza, ma lo sono nei loro effetti indiretti. Dopo l’11 settembre, per esempio, anziché proseguire sulla linea del “nuovo ordine mondiale” avviato dal presidente Bush Sr., gli Stati Uniti si sono infilati in due guerre, costate finora circa 1.000 miliardi di dollari, con ovvie distorsioni sull’economia; le spese militari nel mondo sono cresciute di oltre 50 miliardi di dollari, ma soprattutto l’instabilità creata in alcune aree ha dirottato gli investimenti e li ha spostati dal lungo termine al breve termine. Non è un caso che proprio dopo l’11 settembre la cosiddetta economia finanziaria abbia eroso spazio all’economia reale. L’obiettivo del terrorismo è rendere incerto il futuro e rendere alcuni luoghi più rischiosi, e costosi, di altri dal punto di vista economico. Con l’effetto generale di un rallentamento dell’economia perché non si azzarda un investimento produttivo a lungo termine e si preferisce quello speculativo. Come sottolinea il professor Abadie, oltre all’aumento dell’incertezza, il terrorismo riduce le aspettative dei profitti, spinge a diversificare in più paesi gli investimenti, con costi aggiuntivi, o a ritirare i capitali e chiudere le imprese, innescando problemi sociali e politici nei paesi di accoglienza. Le difficoltà così indotte fanno aumentare il peso delle posizioni più radicali per cui ogni atto terroristico, per i danni diretti e indiretti che produce, alimenta l’estremismo.India e Pakistan non hanno, in questo momento, nessun interesse a farsi la guerra. L’India è in pieno sviluppo economico e anche il Pakistan, per alcuni prodotti, è entrato nell’economia globale. Eppure l’attentato di Mumbai può rafforzare nell’uno e nell’altro paese la propensione allo scontro, dando più potere, e risorse, ai militari rispetto ai manager, e obbligando i politici a cavalcare i sentimenti nazionalistici popolari. Una guerra, oltre le devastazioni e l’incubo di una possibile escalation nucleare, annullerebbe i progressi economici compiuti con conseguenze su tutti gli altri partner, a partire dalla Cina – che a sua volta reagirebbe riducendo gli acquisti di bond americani e complicando le scelte della nuova presidenza – e l’Europa di certo non resterebbe immune. E’ la teoria del caos applicata alle relazioni economiche e politiche internazionali: una foglia che cade nella foresta amazzonica provoca un tornado nei Caraibi. Togliamoci quindi dalla mente che i terroristi siano dei ferventi o esaltati fedeli. Le religioni non c’entrano e non sarà eliminando le fedi religiose che si arriverà alla pace degli illuministi. I vertici del terrorismo lavorano con sofisticati programmi informatici che prefigurano scenari alternativi, e più che i versetti del Corano seguono sul computer l’andamento delle Borse. Per finanziarsi, è assai probabile che speculino su crolli e rimbalzi, con il vantaggio di sapere in anticipo ciò che causerà i primi e i secondi. Per questo essi hanno molti alleati oggettivi sparsi in tutti gli angoli del mondo. Per questo è necessario rafforzare l’economia reale, bloccare le spinte nazionalistiche e protezionistiche, insistere sui benefici del commercio internazionale e premere su Nuova Delhi e Islamabad perché non facciano il gioco del terrorismo.

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