Nazismo biologico e "nazismo spirituale" per un fiolosofo israeliano, Martin Heidegger avrebbe aderito al secondo: l'intervista di Francesca Paci
Testata: La Stampa Data: 03 dicembre 2008 Pagina: 32 Autore: Francesca Paci Titolo: «Leggere Heidegger a Gerusalemme»
Da La STAMPA del 3 dicembre 2008, un'intervista di Francesca Paci al filosofo israelianoRaphaël Zagury-Orly, autore di un saggio su Martin Heidegger:
Leggere Heidegger in Israele è problematico. Almeno quanto ascoltare la musica di Wagner che, come il grande filosofo tedesco autore di Essere e tempo, viene associato alla Germania di Hitler. Del primo però si discute, l’altro resta tabù. «Il nazismo di Heidegger è meno ovvio di quello di Wagner», spiega Raphaël Zagury-Orly, seduto al ristorante Cantina di Rothschild Boulevard, nel cuore Bauhaus di Tel Aviv. Enfant prodige della filosofia contemporanea, scoperto tra i banchi della Sorbona di Parigi da Jacques Derrida, Zagury-Orly è nato a Haifa 41 anni fa da genitori ebrei marocchini, ma si è trasferito in Israele solo nel 2003. È tornato per la gioia dei polemisti: il saggio che ha appena pubblicato con l’amico e collega Joseph Cohen sulla rivista Les temps modernes, la bibbia del pensiero francese fondata da Sartre all’indomani della seconda guerra mondiale, analizza Martin Heidegger separando la dottrina del professore che amò in modo tormentato Hannah Arendt dalla sua adesione al nazismo. Un filosofo ebreo può davvero affrontare Heidegger senza inciampare nella teoria razziale? «Heidegger non ha mai sposato le teorie razziali. Il suo nazismo non fu biologico ma spirituale. Peggio, magari. Il punto però è un altro: io non evito il nazismo, cerco d’individuare nei testi di Heidegger un’indecisione tra "il luogo" definito dal contesto nazionale e nazionalista e "il luogo" dell’essere che Heidegger lascia indefinito. La filosofia è proprio questa doppia sfida: inserire il pensiero nel contesto storico e poi sganciarlo. Una dinamica che si capisce bene in Israele». Perché? «Qui sperimentiamo ogni giorno la contraddizione tra generale e particolare, universale e nazionale, ebraismo e laicità». Come spiega l’interesse d’Israele per Heidegger e il rifiuto di Wagner, uno dei massimi compositori della storia della musica? «In Israele ci sono sopravvissuti alla Shoah che hanno ascoltato la musica di Wagner diffusa dalla radio dei Lager. Wagner è stato usato dai nazisti, Heidegger no, era incontrollabile. Il saggio di Wagner Il giudaismo nella musica è pervaso di antisemitismo, mentre non ce n’è traccia negli scritti di Heidegger, non più comunque di quanto compaia nei libri di Kant, Hegel, Voltaire. Heidegger era nazista, forse antisemita, ma in maniera assai più complicata». Qual è l’eredità di Heidegger? «Il tentativo di ripensare l’uomo con una definizione diversa da quella di essere autonomo. Per questo è fondamentale per il pensiero ebraico, perché la definizione biblica dell’uomo precede la sua libertà. Responsabilità in ebraico si dice hahraiut, una parola che deriva da aher, altro. Senza la chiamata di Dio, Abramo non si sarebbe mai incaricato del suo popolo che, contrariamente a quanto predicava il nazismo, si definisce eletto perché non ha scelto ma è stato scelto». Lei ha scelto di tornare. Le manca la dimensione della diaspora? «La diaspora è parte d’Israele, dove convivono nazionalismo e esilio. A differenza di quanto crede la Francia, e forse anche l’Italia, Israele non è solo affermazione d’identità. Il sionismo avrebbe voluto omogeneità, ma ha prodotto molteplicità. Non parlo della babele di lingue e culture. In Israele gli ebrei si confrontano con la questione dell’identità come mai in passato. Era facile essere ebrei tra non ebrei, nella diaspora. Ora abbiamo di fronte gli stranieri, i religiosi, i laici, Dio e lo Stato». L’unico sopravvissuto dei terroristi di Mumbai ha rivelato che il commando voleva «uccidere gli ebrei». Israele ha risposto alzando l’allarme contro iljihadglobale, il nuovo antisemitismo. «L’antisemitismo non è mai nuovo. Neppure quello cosiddetto di sinistra. Mi duole ammetterlo, sono un uomo di sinistra, ma la sinistra non è mai stata estranea al totalitarismo. A suo modo, certo, non come la destra. A questo si aggiunge la relazione complicata con Israele. L’Europa sente fatica per la questione ebraica, è normale, è giusto. Spero che gli ebrei restino un trauma per anni. Solo che attraverso questa fatica Israele diventa la scusa per dire: d’accordo, gli israeliani non sono diversi da noi. Inoltre l’Europa si è allontanata, o così crede, dall’idea di Stato nazionale. Israele le ricorda com’era negli anni 60, come avrebbe trattato i palestinesi allora ma oggi non più. È un doppio errore. Nonostante Israele sia legato all’Occidente e talvolta sia tentato dal peggio dell’Occidente, non è solo un agente del colonialismo, esce dagli schemi, spariglia le carte». Che ruolo ha la filosofia nella società israeliana contemporanea? «So che ruolo dovrebbe avere, quello di alimentare la tensione tra stare insieme e preservare l’identità. Coltivare la domanda, il luogo dell’apertura. Personalmente non potrei più vivere altrove». Per questo è finito a insegnare filosofia a Gerusalemme? Ride. «Da piccolo sognavo di fare il poliziotto».
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