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Conta le stelle, se puoi Elena Loewenthal
Einaudi Euro 17,50
Potrebbe essere un avvio lento, con quel carretto, che pare uscito da un quadro di Chagall e procede a strattoni tra le campagne di Fossano, tirato da “nonno Moise”, nell’anno di grazia 1872. Però, “a dire più o meno il vero”, così come nonno Moise “non era ancora nonno Moise”, ma solo un ragazzo di vent’anni “con un’ombra di baffi sopra il labbro superiore e qualche sparuto peluzzo in punta di mento”, la storia va veloce da subito, e anzi rincorre le tracce di questo ebreo piemontesissimo, che ha fretta di partire per andare a far fortuna, ricco solo di un carico di stracci. Ha un gran fiuto per gli affari, Moise, come lo potevano avere i giovanotti nella seconda metà dell’Ottocento, scarsi di mezzi di fortuna, ma robusti di braccia e di cervello, e con una gran voglia di nuotare in quel rivolgimento delle cose.
“Conta le stelle, se puoi”, ultimo romanzo di Elena Loewenthal, rientra con naturalezza nel genere delle saghe familiari, e di quelle ben riuscite. Il tono è allo stesso tempo intimo e scanzonato, come si addice a chi quelle storie le ha sentite mille volte, fin dall’infanzia, e se le è fissate nel cuore, in luoghi fermi e lucenti, appena screziati da provvidenziali smemoratezze.
Nella figura di Moise, che parla un irresistibile dialetto frammisto di parole ebraiche, si rispecchia la vicenda intera dell’ebraismo piemontese, e torinese in particolare, dopo l’emancipazione concessa da Carlo Alberto “buonanima”, che per fortuna morì “non nel ’48, ma nel ‘49” e fece così a tempo a firmare la benedetta legge. Moise impersona il borghese intraprendente, di quelli che vollero e fecero l’Italia, patriota tanto da arruolarsi alla bella età di quasi sessantasette anni, “lui ch’era nato in un’epoca in cui gli ebrei non facevano i soldati, e quella era una tara, non un privilegio”. Attorno a lui, una schiera di discendenti, figli, e soprattutto figlie, nipoti e pronipoti, e Torino, che cambia e si modernizza, un po’ per scelta e un po’ per sbaglio, con la Mole che, per intoppi di altezze e di denaro, mai divenne sinagoga.
E proprio nella prolifica discendenza di Moise sta l’altro punto focale della narrazione. Elena Loewenthal racconta ciascun rampollo della famiglia con la certezza di chi ha trovato nel cassetto una lettera, una fotografia, un ritaglio di giornale, un nastro per i capelli,un paio di guanti. Così compaiono Esterina, nella sua “auto mobile” fiammante, tra le prime donne ad avere una patente di guida, o Rita Italia, da tutti detta Ritalia, fortunata scrittrice per bambini sotto moltissimi “nomi di piuma”, e Ida che, per il capriccio di un viaggio nel deserto, diventa sionista e pioniera in Israele. E poi ancora Luigi e Perla, che finiranno per vivere su un piroscafo, con due bauli pieni di figurine di carta giapponesi, da portare ai nipoti sparsi per il mondo.
Eppure, tutta questa buona sorte di una famiglia ebraica italiana del Novecento non è vera. O meglio, lo è, ma solo perché un bel giorno del 1924 Mussolini è morto di colpo, e perché il 1938 è stato un anno “formidabile”, “fantastico”, ed “emozionante”.
Giulio Busi
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