Sui quotidiani del 28 novembre 2008 si trovano diversi articoli sul dialogo tra David Grossman e Susanna Tamaro alla Hebrew University di Gerusalemme, tra i quali "Grossman-Tamaro, la forza dello spirito" di Haviva Cohen (Il GIORNALE pagina 33) e "Guardarsi dentro con o senza fede" di Francesco Battistini a pagina 57 del CORRIERE della SERA.
Da La STAMPA, a pagina 45, riportiamo l'articolo di Francesca Paci:
Grossman-Tamaro duello su Dio:
«Sono profondamente ebreo, ma non credo in Dio. Preferisco vivere in un mondo senza mediazione tra me e il caos e sentire che nulla mi consola se non le cose create da me». Le parole dello scrittore israeliano David Grossman fanno il vuoto nell’auditorium della Hebrew University di Gerusalemme. Il traduttore esita appena. Susanna Tamaro - sul palco con l’autore di A un cerbiatto somiglia il mio amore (tradotto da Mondadori) per l’ultimo dei «Dialoghi italo-israeliani» organizzati dall’Istituto italiano di cultura di Tel Aviv - si sistema le cuffie. Ha capito bene. La giornalista Marina Valensise incalza: è davvero ateo, uno come lui che scrive d’amore in modo così sublime? Lui sorride: «Voglio che il senso del mondo appartenga a me, senza protezione, non sopporto la passività della fede».
Susanna Tamaro, musa dei credenti che scrive pervasa di divino, prende la parola: «La fede non è affatto passività, è partecipazione alla pienezza della vita. La protezione non c’entra, io sono esposta: i miei amici, specie quelli di sinistra, hanno molte più risposte di me». Grossman insiste: «Il credo è un ombrello che esonera dalla responsabilità del vivere». Il problema è camminare sul filo senza rete come quando, da piccolo, leggeva i libri sulla Shoah e non gli bastavano, voleva essere lì. Il romanzo Vedi alla voce amore è il suo tentativo di affrontare la paura d’essere un ebreo, o un tedesco, nei giorni dello sterminio. Cosa pensava allora un tedesco?
Dio, la memoria, l’Olocausto. Per gli intellettuali israeliani reale e trascendente sono allo stesso tempo traguardi e ostacoli da superare. È possibile che l’arte rappresenti l’inferno del Lager senza banalizzarlo? Il filosofo Adorno era convinto di no. Hollywood ci prova: a Natale le sale cinematografiche di mezzo mondo verranno invase da pellicole sullo sterminio degli ebrei, The boy in the striped pyjamas, Resistenza, Adam resurrected. Una produzione massiccia, eccessiva secondo il critico del New York Times A. O. Scott che teme la «westernizzazione» della Shoah, sempre più genere con le sue musiche, i personaggi, i cliché.
Aaron Appelfeld, patriarca degli scrittori dell’Olocausto, ammette il rischio che il grande schermo normalizzi lo sterminio. Ma è sempre meglio dell’oblio: «Un giorno arriverà un regista come Ingmar Bergman e filmerà immagini immortali, volti, occhi, spalle, mani, i dettagli dello sterminio». Nell’attesa, dice Asher Salah, docente di storia del cinema all’Accademia Betzalel di Gerusalemme, il merito di titoli come La vita è bella sta nella capacità di raggiungere il pubblico di massa. Sia pur in modo approssimativo: «L’Olocausto è già un genere che fa leva sul melodramma e, talvolta, manca di approfondimento». Alla première gerosolimitana del thriller Il falsario, Oscar come miglior film straniero del 2008, i sopravvissuti fischiarono, disapprovando la ricostruzione. Dio non c’era, e gli storici? Ricordare è un falso mito, sostiene lo scrittore italiano Alessandro Piperno: «La memoria può essere un disvalore, può diventare solenne, commovente, retorica». Il suo romanzo Con le peggiori intenzioni racconta l’epopea di una famiglia ebrea che vuol dimenticare: «Come mai non abbiamo mai visto un film su qualcuno scampato al Lager che diventa uno stupratore? La memoria santifica. L’istituzionalizzazione sta riammazzando la Shoah». Una passeggiata sul filo. Senza rete.
Su ciò di cui non si può parlare bisogna tacere, concorda Nava Semel, sceneggiatrice, produttrice televisiva, autrice di fiabe per bambini tradotte anche in italiano. A meno di trovarsi, come in questo momento, al giro di boa: «Tra dieci anni gli ultimi testimoni non ci saranno più, la loro voce, come quella dei miei genitori, entrambi sopravvissuti, si perderà». E allora pazienza per la faccia banale della medaglia, concede Gal Uchovsky, coregista del film Camminando sull’acqua, la storia di un agente del Mossad che aggancia il nipote di un vecchio nazista, si fa portare da lui a tradimento ma poi, insieme, finiscono per ucciderlo. Il nuovo cinema israeliano, come la letteratura, «parla dell’Olocausto parlando d’altro». Sulle orme di Appelfeld che scrive come fosse il bambino di allora. Oggi si può. Si deve, aggiunge la scrittrice cinquantacinquenne Lizzie Doron: «Abbiamo una distanza dalla Shoah che ci consente di raccontare quello che prima era tabù. Per la mia generazione, per esempio, è impossibile farlo con la guerra del Kippur, ci vorrà tempo». E amore. Che sia riflesso del Dio della Tamaro o dell’uomo di Grossman.
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