Come sarà la politica estera di Obama l'analisi di Christian Rocca
Testata: Il Foglio Data: 27 novembre 2008 Pagina: 3 Autore: Christian Rocca Titolo: «La neorealpolitik di Mr O»
Da Il FOGLIO del 27 novembre 2008, l'articolo di Christian Rocca "La neorealpolitik di Mr O" (pagina 1 dell'inserto)
Barack Obama non ha ancora nominato la sua squadra di politica estera e di difesa, lo farà lunedì, ma i nomi, i profili e i curriculum dei politici, consiglieri e collaboratori che andranno a occupare i posti chiave della sua Amministrazione circolano già da tempo e preannunciano una politica di sicurezza nazionale pragmatica, di scuola realista, di destra, più che di sinistra, tradizionalmente repubblicana, più che democratica. La nuova Amministrazione Obama si appresta certamente a chiudere la breve e sopravvalutata era di influenza dei neoconservatori a Washington, ma cancella ogni residuo di quella politica estera progressista, pacifista, affetta dalla sindrome post Vietnam che già Clinton aveva messo nel dimenticatoio della storia e che ormai riesce ad avere presa soltanto nella sinistra europea. Gli internazionalisti liberal clintoniani, avversari ideologici della sinistra progressista, avranno la loro emblematica tribuna con Hillary e i suoi al dipartimento di stato, ma nell’era Obama i vincitori dello scontro ideologico di questi anni post 11 settembre sono i realisti, che erano usciti con le ossa rotte dalla battaglia interna all’Amministrazione Bush e da quella culturale con il mondo liberal, ma che oggi sono pronti a prendersi la rivincita sia sui neoconservatori sia sugli interventisti democratici e a trovare rifugio politico non nel loro tradizionale partito, ma tra i democratici. Hillary Clinton è la scelta più falca e muscolare che Obama possa fare per il dipartimento di stato, tanto da essere stata già lodata da realisti come Henry Kissinger, da neoconservatori come Bill Kristol e Max Boot. Anche il probabile vice di Hillary, James B. Steinberg, è un internazionalista liberal. Ex membro del Consiglio di sicurezza di Bill Clinton, favorevole alla guerra in Iraq, Steinberg è sostenitore della tesi che “malgrado saranno in molti a salutare con sollievo l’apparente fine della guerra preventiva, sarebbe un errore se l’intero concetto fosse abbandonato”. Un paio d’anni fa, Steinberg ha scritto un articolo sul Los Angeles Times in cui sosteneva: “Quando gli stati non agiscono in modo responsabile, la comunità internazionale deve intervenire. Le pressioni economiche e diplomatiche molto spesso sono sufficienti a risolvere i problemi, ma ci saranno sempre situazioni in cui le azioni militari limitate rappresenteranno l’unica via efficace per eliminare una minaccia imminente, per esempio prima che uno stato produca materiale fissile sufficiente a farsi un’arma nucleare o prima che i terroristi siano pienamente in grado di escogitare i loro piani. Un problema della dottrina Bush, quindi, non è che si basi apertamente sulla forza preventiva, ma che concepisca il suo uso in modo troppo stretto, principalmente contro i terroristi e per rimuovere i regimi che pongono minacce”. Susan Rice, collega di Steinberg al Consiglio di sicurezza nazionale di Clinton, sostenitrice di Obama fin dalla prima ora, era la più progressista del gruppo obamiano e in lizza per posti importanti nell’Amministrazione, ma proprio per questo non avrà né il posto da consigliere per la Sicurezza nazionale né qualcosa al dipartimento di stato, piuttosto sembra destinata alle Nazioni Unite, dove da ambasciatore americano proverà a far valere le sue competenze sul Darfur e sulle altre questioni umanitarie. Il vicepresidente Joe Biden, infine, è un altro “falco liberal”, un esponente dell’internazionalismo clintoniano degli anni Novanta. Ma più che la squadra di politica estera – in teoria appaltata all’ala interventista democratica del partito, anche se le linee d’azione saranno dettate da Obama – è il probabile team di sicurezza nazionale a far intuire l’approccio realista e di destra della prossima Amministrazione. Obama non ha mai nascosto la sua ammirazione per la politica estera di George W. Bush senior, nel 2000 abbracciata anche dall’attuale presidente Bush contro l’allora interventista democratico Al Gore, ma poi messa da parte in seguito agli eventi dell’11 settembre perché giudicata inadatta ad affrontare la sfida islamista radicale. Obama ancora oggi si consulta spesso con l’ottantatreenne consigliere per la Sicurezza nazionale di Bush senior, il repubblicano Brent Scowcroft. Contrario alla guerra in Iraq e mentore di Condi Rice, Scowcroft è un conservatore realista e pragmatico, mal sopportato da Israele e sostenitore del dialogo con i nemici dell’America. Obama è uno scowcroftiano convinto, ma su Israele sembra difficile che la linea Scowcroft possa superare le resistenze del capo dello staff della Casa Bianca, Rahm Israel Emmanuel, ebreo ortodosso, sionista militante, già volontario civile nell’esercito di Israele durante la prima guerra del Golfo (per il National Journal, la scelta di Emanuel piace al 93 per cento dei dirigenti del Partito repubblicano). Obama sta provando a imbarcare nell’Amministrazione vari seguaci di Scowcroft, poco importa se non risultano registrati al Partito democratico. Il primo e il più importante è Bob Gates, il boss del Pentagono scelto due anni fa da George W. Bush per sostituire Donald Rumsfeld. Gates resterà al Pentagono. Non è un ideologo, era favorevole al ritiro delle truppe americane dall’Iraq, ma deve la possibile riconferma di Obama non soltanto alle buone referenze di Scowcroft, ma anche al successo della dottrina Petraeus, ovvero all’invio in Iraq di trentamila ulteriori soldati con una diversa strategia politica e militare cui Obama si era opposto e che ora, lui stesso, riconosce aver avuto successo “oltre ogni rosea aspettativa”. Il suo vice dovrebbe essere il realista Richard Danzig, già segretario della Marina militare durante gli anni di Clinton. Un altro protegé di Scowcroft, Richard Haass, oggi presidente del Council on Foreign Relations, ma già nelle Amministrazioni di Bush padre e figlio, è tra i papabili per un ruolo importante nel team. Alla Cia sembrava destinato una delle figure politiche più difficili da digerire per la sinistra antibushiana, che infatti ha scatenato una battaglia preventiva e vittoriosa. L’unico nome che circolava, fatto trapelare dal team Obama, era quello dell’attuale capo del transition team obamiano sulle questioni della sicurezza nazionale: John Brennan, repubblicano, ex capo dello staff di George Tenet, cioè del direttore della Cia che ha sulle spalle il fallimento pre 11 settembre, il fiasco sulle armi di distruzione di massa di Saddam e, infine, la conduzione della guerra al terrorismo di Bush. Ammiratore di Dick Cheney, sostenitore dell’efficacia dei sequestri clandestini internazionali (“extraordinary rendition”) e delle tecniche “avanzate” di interrogatorio dei detenuti, Brennan non aveva certo il curriculum da direttore della Cia ideale per un militante di sinistra convinto che Bush e Cheney abbiano manipolato le prove sulle armi di Saddam, torturato i nemici e violato la Costituzione americana. Eppure Obama lo ha scelto per gestire il passaggio di consegne da Bush nelle delicate questioni di sicurezza nazionale e ha pensato a lui per guidare l’agenzia di spionaggio internazionale. Le proteste circolate su Internet hanno convinto lo stesso Brennan, martedì sera, a scrivere una lettera a Obama per annunciare la sua non disponibilità a occupare incarichi nella prossima Amministrazione, per non diventare un problema e una distrazione per il nuovo presidente. Andrew Sullivan, per dire, era convinto che l’uomo indicato da Obama per diventare il direttore della Cia fosse un clone di Cheney, colpevole di “crimini di guerra”, sostenitore della “tortura” e di metodi degni della “Gestapo”. Il direttore dell’Intelligence nazionale, invece, dovrebbe essere l’ex ammiraglio Dennis Blair, esperto di Cina e Russia, già al comando con Bush delle operazioni militari nel Pacifico, dove ha elaborato una strategia antiterrorismo considerata efficace contro i gruppi islamici del sud-est asiatico. L’uomo chiave della squadra del presidente, però, è il consigliere per la Sicurezza nazionale. Obama avrebbe già scelto un altro personaggio non appartenente al Partito democratico, un generale dei marine: James Jones, ex comandante supremo delle forze Nato in Europa, amico da una vita di John McCain, per il quale ha anche partecipato a un evento elettorale. Consigliere informale anche di Hillary, indipendente e bipartisan, Jones è stato l’inviato in medio oriente di Condoleezza Rice e non ha accettato numerosi posti di rilievo sotto Bush per la sua schietta contrarietà alle politiche di Rumsfeld. E’ molto probabile, inoltre, che Jones avrebbe ottenuto un ruolo di governo importante anche in caso di vittoria di McCain o Hillary Clinton. Con Jones al Consiglio di sicurezza nazionale e Gates al Pentagono, i due pilastri della politica militare e di difesa sarebbero stati identici a quelli che avrebbe scelto John McCain. Jones è convinto che le truppe americane debbano restare in Iraq e che ritirarsi sarebbe “contrario ai nostri interessi nazionali”, ma crede che il cuore della battaglia contro al Qaida sia l’Afghanistan e pensa che Guantanamo vada chiuso subito, soprattutto per una questione di immagine internazionale, e che bisogna trovare il modo di confrontarsi con i nemici, oltre che con gli amici. Jones, al fianco di Obama, coordinerà la politica di sicurezza degli Stati Uniti. Scegliendo un generale dei marine, stimato non soltanto al Pentagono, ma anche tra i più falchi del Partito repubblicano, Obama non ha certo fatto una concessione all’ala progressista e pacifista che lo ha eletto alla Casa Bianca. Il New York Times ha già suonato l’allarme in prima pagina: “Obama sta programmando di governare dal centro destra del suo partito”, mettendoci anche le scelte free market e a favore dei tagli fiscali di politica economica. Altri obamiani della prima ora, pacifisti e più radicali, gridano già al tradimento e sostengono, come si legge sul sito Open Left, che le scelte di Obama sembrano prefigurare una politica estera non di centrodestra rispetto al Partito democratico, come scrive il New York Times, ma di destra rispetto al paese. “Non ci siamo fatti un mazzo così per eleggere Obama – aveva scritto Andrew Sullivan alla notizia di Brennan alla Cia – soltanto per avere altri quattro anni di Bush alla Cia”. Il mensile The Nation è stato ancora più esplicito: “Ma che cazzo! Nemmeno un singolo, solitario, vero progressista è stato soltanto menzionato per un posto nell’Amministrazione. Nemmeno uno”. Obama saprà accontentarli. E’ un politico navigato. L’Iraq è sulla via della risoluzione e già Bush ha previsto il rientro delle truppe per la fine del 2011. Il presidente eletto si adopererà subito dopo l’insediamento per chiudere Guantanamo, anche se in queste settimane i suoi esperti stanno scoprendo che è più facile dirlo che farlo, perché una volta chiuso il carcere extraterritoriale non si sa che cosa fare dei terroristi detenuti e l’ipotesi di fare una legge speciale soltanto per i terroristi appare una violazione ancora più grande dei principi della Costituzione americana. Obama ha affidato ad altri due clintoniani, Greg Craig ed Eric Holder, il compito di riscrivere le regole giuridiche della guerra al terrorismo. Craig sarà il nuovo consigliere legale della Casa Bianca, Holder il nuovo Attorney General. Entrambi sono molto critici delle scelte di Bush e Cheney. Eppure, proprio Holder, nel gennaio 2002, ha detto alla Cnn che “una delle cose che chiaramente vogliamo fare con questi prigionieri è quella di avere la capacità di interrogarli e di capire quali potrebbero essere i loro piani futuri, dove siano le altre cellule; la convenzione di Ginevra limita la quantità di informazioni che possiamo ottenere da queste persone. Mi sembra, in ogni caso, che queste non siano, in realtà, persone col diritto alla protezione della Convenzione di Ginevra. Non sono prigionieri di guerra. Se, per esempio, Mohamed Atta fosse sopravvissuto agli attacchi del World Trade Center, lo considereremmo prigioniero di guerra? Non penso. Zacarias Moussaoui può essere considerato un prigioniero di guerra? Di nuovo, penso di no”. Obama non è un ideologo, è un politico pragmatico. Non è un pacifista, anche se si è opposto alla guerra in Iraq. Da senatore ha condotto e vinto la campagna elettorale per le primarie del Partito democratico da sinistra, alla sinistra di Hillary Clinton, ma contro John McCain ha ribaltato molte sue posizioni. Prima voleva ritirarsi subito dall’Iraq, cancellare i programmi di sorveglianza e spionaggio autorizzati da Bush, opporsi ai trattati di libero scambio con gli alleati e chiudere immediatamente Guantanamo. Ma una volta sconfitta Hillary, è stato molto più cauto sull’Iraq e ora sembra voler accettare il calendario di rientro stabilito da Bush e David Petraeus assieme agli iracheni, infine ha votato a favore del programma spionistico, garantendo anche l’immunità alle società di telecomunicazioni che hanno collaborato con la Casa Bianca. Anche sui trattati commerciali di libero scambio, Obama ha cambiato posizione, passando da una posizione protezionista e retoricamente critica della globalizzazione clintoniana, a ribadire la necessità di firmare i trattati con i paesi alleati. Sul fronte interno, crisi economica permettendo, è probabile che Obama cercherà di ottenere riforme sociali di sinistra, a cominciare dalla sanità, ma intanto per affrontare la crisi si è circondato di esperti dell’ala liberista del partito. Sulla politica estera e di sicurezza, invece, non ha mai fatto concessioni all’ala progressista e internettiana della sua coalizione, malgrado abbia costruito la sua candidatura proprio sull’iniziale contrarietà all’intervento armato in Iraq. Ci sono varie spiegazioni a questo atteggiamento. La prima, semplice, è che Obama non è né pacifista né progressista all’europea. Gli obamiani di sinistra che non vogliono credere che il loro eroe li abbia già traditi, così spiegano che costruire una squadra di falchi filoisraeliani è il modo obamiano per garantirsi una copertura politica quando dovrà costringere Israele a rinunciare a qualcosa. Altri sostengono che Obama, concedendo sui temi della sicurezza nazionale, in realtà cerchi copertura politica a destra per le riforme sociali di sinistra che ha intenzione di realizzare al più presto. C’è anche chi vede nella scelta di Hillary la riedizione del conflitto politico e ideologico tra la Casa Bianca di Bush e il suo più moderato segretario di stato: così come la presenza di Powell è servita a Bush per conquistare credibilità in territori a lui ostili, come l’Onu, oppure per fare in modo che la base conservatrice avesse un obiettivo interno su cui scaricare la rabbia per gli eventuali insuccessi, Obama avrebbe da giocarsi la carta Hillary come parafulmine interno ed esterno in caso le cose dovessero andare male. In assenza di eventi clamorosi che potrebbero cambiare l’approccio politico e ideologico, come è successo a Bush dopo l’11 settembre, con Obama tornerà una politica estera e di difesa realista, di scuola kissingeriana, come non si vedeva dai tempi di Bush senior, oltre che dai primi ed esitanti anni di Bill Clinton (quelli della resistenza a intervenire nei Balcani e delle mani in mano di fronte all’annunciato genocidio in Ruanda) e che, negli ultimi tempi, ha avuto nei repubblicani e scowcroftiani Colin Powell (l’uomo delle fialette all’Onu) e Richard Armitage (il vice di Powell che ha passato ai giornali il nome dell’ex spia della Cia Valerie Plame) i maggiori rappresentanti. Una politica estera realista vuol dire un’America cauta, come peraltro è sempre stata, pronta a usare la sua potenza militare soltanto in caso di pericolo immediato per i propri interessi, certamente capace di offrire assistenza e aiuto in caso di disastri umanitari internazionali, ma attenta a non rischiare vite americane per salvarne altre. Secondo l’approccio realista caro a Obama e, nel recente passato, a Henry Kissinger e Bush senior, gli stati si comportano sempre a tutela dei propri interessi, quindi l’errore più grave che l’America possa fare è quello di dare una lettura moralista alle questioni internazionali. La tradizionale politica estera del Partito democratico – da Woodrow Wilson a John Kennedy, fino al secondo mandato di Bill Clinton – è invece quella secondo cui il compito dell’America è di intervenire, se necessario con azioni militari, anche soltanto per ragioni puramente umanitarie. I neoconservatori, nati dopo il Vietnam, quando la sinistra pacifista e progressista ha preso il sopravvento nel Partito democratico, sono ex liberal che provengono da questa stessa tradizione che ha avuto nel senatore democratico Henry Scoop Jackson il suo principale protagonista politico. Quando Clinton e il premier laburista britannico Tony Blair hanno ridato vita all’antico internazionalismo liberal, intervenendo in Kosovo senza alcuna autorizzazione Onu e cambiando (nel 1998) la politica ufficiale dell’occidente contro Saddam dal contenimento al cambio di regime, i neoconservatori sono stati i loro unici alleati: l’Iraqi Liberation Act firmato da Clinton e sostenuto da Gore era stato presentato al Congresso a doppia firma del senatore repubblicano John McCain e dal democratico Joe Lieberman. I realisti di destra e i progressisti di sinistra erano contrari. L’alleanza tra i neointernazionalisti liberal e i neoconservatori si è consolidata dopo l’11 settembre, quando l’America e la Gran Bretagna hanno elaborato una risposta ideologica, politica e militare agli attacchi islamisti a cui ancora non è mai stata contrapposta un’alternativa seria. La differenza tra l’approccio clintoniano e quello neoconservatore non è sull’uso della forza, piuttosto sulla particolare cura e attenzione dei liberal all’opinione pubblica mondiale e alle istituzioni internazionali, anche se – come è accaduto in occasione del Kosovo – non sempre serve a ottenere il via libera delle Nazioni Unite. La politica estera di Washington ai tempi di Obama sarà meno ideologica rispetto al recente passato clintoniano e bushiano, certamente più “humble”, umile (come peraltro nel 2000 aveva promesso Bush in uno dei dibattiti presidenziali contro l’interventista Al Gore), forse fin troppo disattenta ai problemi del mondo se Obama si farà ingabbiare, come è improbabile, nel rigido schema scowcroftiano su cui sta impostando la sua squadra. Ma il rischio c’è, al punto che lunedì mattina, dopo tante critiche a Bush, il primo editoriale del Washington Post avvertiva Obama che “abbandonare la promozione e il sostegno della democrazia come obiettivo centrale dell’America sarebbe un errore terribile. Bush aveva ragione a vedere la libertà come elemento integrante di altri obiettivi di politica estera. Nei paesi arabi la soppressione delle alternative democratiche alimenta il terrorismo”.
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