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Libero Rassegna Stampa
26.11.2008 Il sionismo di Isaiah Berlin
che scrisse della costruzione dello Stato ebraico nel suo epistolario

Testata: Libero
Data: 26 novembre 2008
Pagina: 30
Autore: Mauro Bernardi Guardi
Titolo: «Isaiah Berlin liberale e sionista fra i pollai di Tel Aviv»

Da pagina 30 di LIBERO del 26 novembre 2008, l'articolo di Mauro Bernardi Guardi "Isaiah Berlin liberale e sionista fra i pollai di Tel Aviv":

Nel 1986 la casa editrice Adelphi pubblicava Il riccio e la volpe dello storico delle idee Isaiah Berlin, pensatore liberale della linea “scorretta” (come Aron, Popper, von Hayek e Mises). A confermare le qualità - intelligenza, apertura intellettuale, ironia - dello studioso britannico (ma di origine russa e di radici ebraiche) esce ora una selezione del suo ricchissimo epistolario giovanile: A gonfie vele. Lettere 1928-1946 (Adelphi, a cura di Henry Hardy e Flavio Cuniberto, pp. 380, euro 26). Adesso Berlin piace un po’ a tutti, ma per il suo “sdoganamento” si è dovuto aspettare che entrassero in crisi socialismo reale ed egemonia culturale marxista, con annessa infastidita diffidenza nei confronti di tutti gli “spiriti liberi”. Oggi, finalmente, Berlin ha il suo scranno sull’Olimpo culturale bipartisan.

Lo merita lo studioso maturo, lo merita il giovane studente, l’Isaiah (nato a Riga, in Lettonia, nel 1909, da una famiglia di ebrei benestanti di lingua russa, emigrata in Inghilterra nel 1921) che approda all’All Souls College di Oxford, dove in seguito sarebbe diventato un fior di docente. Isaiah è bravo: divora libri e dibatte idee, partecipa a conferenze, comincia a scrivere ponderosi saggi sugli scrittori russi e su Marx, ma si diverte, anche, e scherza, ride, irride. Detesta i paraocchi. Vuole capire. È pieno di interesse per la cultura, ma anche per gli esseri umani.

Registra e trasforma tutto in letteratura con lo stile arioso e affascinante del grande narratore-testimone: il vago profumo nazi di Stefan Gorge, la morte di T.E.Lawrence («Fu l’unico del suo rango a cavalcare una motocicletta»), le disillusioni reazionarie di Henry James, e la Stein che dice che gli americani debbono andare a Parigi perché la loro «memoria sintetica» ha bisogno di nutrirsi con una mitologia, e Salvador Dalí che rasa una donna a metà e le frigge un’omelette sulla testa, e Goering che introduce nel Reich un codice venatorio grazie al quale viene sbattuto in galera per quattro mesi un tizio colpevole di aver scagliato una pietra contro un povero uccellino.

È fortunato, Isaiah. I suoi sono ricchi e lo mandano a giro per il mondo. E lui scrive agli amici da Portofino e da Marienbad, da Amalfi e dall’Olanda, dall’Irlanda («Il paese è deliziosamente umido e sparpagliato») e da Venezia («La gente, specialmente le donne, è bella e degenerata, il ritmo delle cose è lentissimo»). Condivide le sue emozioni con i tanti amici, a partire da Stephen Spender, intellettuale molto radical e molto chic, con cui condivide una certa apertura intellettuale verso i comunisti. Ovviamente non quei cafoni dei bolscevichi russi, ma i compagni con il marchio albionico, che «per lo più sono dei veri liberali e non vogliono una rivoluzione cruenta». Meglio loro che quei «grossolani» dei socialisti che «parlano per frasi fatte».

Una cantonata «modaiola»? Forse, ma bisogna sempre ricordare che Berlin è un ebreo sionista, che sente molto forte l’identità e l’appartenenza, e che l’intelligenzia ebraica, tra le due guerre, è di sinistra perché vede il nemico principale nel nazismo antisemita.

In cerca delle radici

La prospettiva di un “focolare ebraico” in Palestina passa dalla lotta contro la Germania di Hitler e dovrà vedere dalla stessa parte Usa e Urss. Nel settembre del ’34, quando l’ebreo-russo-inglese Berlin si reca per la prima volta nella Palestina sottoposta al mandato britannico in cerca delle radici (il senso di questa esperienza lo si può trovare nella lettera inviata al suo rientro ad Oxford agli amici Marion e Felix Frankfurter, di cui riportiamo un ampio brano qui a fianco), il conflitto è lontano, ma è come se Isaiah già intuisse che il destino ebraico ha a che fare con il destino tedesco.

In Isaiah c’è dunque una passione militante, ma non manca mai il gusto dello scavo dentro di sé. Per fare onestamente luce sulle proprie motivazioni. Ad esempio, nel marzo del 1934, aveva scritto all’amica Sheila Grant Duff: «Circa i rapporti tra nazisti ed ebrei, sono troppo parte in causa, e questo condiziona a priori tutto ciò che penso dei nazisti». E ancora: «Io tendo a vedere quello che fanno i tedeschi con un occhio pregiudizialmente ostile». Insomma, Isaiah si guarda di continuo allo specchio della coscienza: vuole essere un uomo libero, che liberamente giudica. E altrettanto liberamente dibatte. Anche con gli antisionisti più feroci.

Appello identitario

Ad esempio ne incontra uno, un siriano di nome Antonius, che si rivela particolarmente intelligente, colto e ferrato sul versante della polemica. E lui ne parla ai genitori in una lettera, datata 24 settembre 1934, in cui dice che, se potesse, incontrerebbe volentieri il Gran Mufti. E ricordiamoci un’altra cosa: il nostro è di famiglia alto-borghese, ha gusti raffinati, studia a Oxford, ha visitato mezza Europa. In Palestina, certo, tutto è suggestivo; troppo, però, in certi casi. Al punto da fargli notare con un certo ribrezzo che se a Tel Aviv molti cercatori d’oro ebrei vivono in case vere e proprie, altri alloggiano invece in «baracche, pollai, case di latta, rumorose e sporche, le vie troppo strette per mancanza di spazio». Conclusione: «gli ebrei non hanno gusto». Ma, subito dopo, ecco il forte appello identitario: «Eppure l’atmosfera, benché febbrile, è bella: ebrei, ebrei dappertutto».

La causa, nel senso e nel segno di un impegno programmatico, prende decisamente forma quando il giovane studioso è a New York dal 1940 al 1942 come collaboratore del British Information Service e successivamente quando viene nominato addetto alle ambasciate inglesi di Washington e di Mosca, dove conosce Anna Achmatova. Un grande amore? Beh, su di sé Berlin non amava far pettegolezzi.

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