Sulla STAMPA di oggi, 23/11/2008, a pag. 25, con il titolo " Il processo di pace è stanco ", Alain Elkann intervista Andrea Cordero di Montezemolo, ex Numzio apostolico in Israele. Le domande sono precise, le risposte discutibili. Il monsignore ritiene che la capitale sia Tel Aviv, Arafat non ha potuto accontentarlo ( e si capisce che gli sia anche dispiaciuto), ce l'ha con gli ebrei che contestano la figura storica di Pio XII durante la Shoà, per finire con San Paolo, una figura "piena di ebraismo" (sic). Termina con un basta alla violenza, senza mai citare da quale parte arriva il terrorismo, così come non fa cenno alla fuga dei cristiani dai territori palestinesi. Insomma, proprio un personaggio come si deve. Ecco l'intervista:
Lei è stato il primo nunzio apostolico in Israele?
«Sì, ho vissuto otto anni in Israele, dapprima come delegato senza relazioni ufficiali, e ho visto una situazione che consentiva di fare un cambiamento. Ho pensato che fosse importante normalizzare le relazioni della Santa Sede con lo stato di Israele e lo stato palestinese. Il lavoro era andato bene e nel dicembre 1993 è stato firmato un accordo: dopo sei mesi le relazioni diplomatiche si sono aperte tra Israele e Vaticano e io sono stato il primo ambasciatore. Arafat voleva che facessimo lo stesso, ma finché non c’era lo stato palestinese era impossibile e così mi sono inventato una cosa: abbiamo stabilito che ci dovesse essere un rappresentante speciale del Vaticano presso i palestinesi e uno dei palestinesi in Vaticano. Nel 1994 fui il primo nunzio in Israele e ho stabilito la nunziatura a Jaffa-Tel Aviv malgrado il fatto che Olmert, allora sindaco di Gerusalemme, volesse che noi stabilissimo la sede nella sua città. Ma non tocca alla Santa Sede decidere quale sia la capitale di uno stato e la capitale riconosciuta è ancora Tel Aviv. Mantenevamo così due sedi: la Nunziatura a Jaffa-Tel Aviv e la delegazione apostolica sul Monte degli Ulivi».
E adesso come è la situazione?
«I miei successori fanno la stessa cosa: sono delegati apostolici a Gerusalemme e Palestina e nunzi a Jaffa».
Le sembra importante il viaggio del presidente Napolitano in Israele?
«Sì, perché tutto quello che si fa per portare avanti il processo di pace è molto positivo. Bisogna fare tutti gli sforzi possibili ma questo è un processo politico, non sulla base di un conflitto religioso».
Lei ha preso una posizione un po’ distante da Israele sulla questione della beatificazione del papa Pio XII.
«E’ vero: ho fatto delle dichiarazioni, ma quella è una questione interna all’organizzazione giuridica della Chiesa Cattolica. Dichiarare un beato o santo vuol dire ammetterne il culto pubblico. I tribunali sono molto severi e non dobbiamo intrometterci. Stiamone fuori. A noi piacciono poco le ingerenze in una questione interna di alcuni ambienti ebraici. Altri ambienti ebraici, invece, che conoscono meglio le cose, non si sono intromessi».
Ma in questo momento c’è un po’ di tensione tra la comunità ebraica italiana e il Vaticano?
«Io ho ottimi rapporti con la comunità ebraica, erano ottimi anche quelli con il rabbino Elio Toaff, che aveva un carisma speciale e un modo di fare molto aperto e gioviale. Il rabbino Disegni è un uomo certamente molto preparato ma più distante, ed ha un carattere differente. Io non conosco il rabbino Laras di Milano».
Ma secondo lei i rapporti tra il Vaticano e il mondo ebraico come sono in questo momento storico?
«Buoni e molto numerosi. Si sono fatti molti passi avanti e, per l’Anno Paolino di cui sono responsabile come arciprete della Basilica di San Paolo fuori le mura a Roma, stiamo pensando di organizzare un incontro culturale bilaterale cristiano-ebraico all’Università Gregoriana con una sessione alla Basilica di San Paolo».
Ma di cosa discuterete?
«Discuteremo intorno alla figura di Paolo che è così piena di ebraismo e di cristianesimo. Ma purtroppo l’antisemitismo continua. Da parte nostra non vi è ovviamente nessun presupposto negativo».
Ma lei torna di tanto in tanto in Israele?
«Sono tornato un paio di volte. Molte cose non sono cambiate, ma trovo che nel processo di pace vi sia un po’ di stanchezza e questa è provocata secondo me da divisioni interne ai singoli Paesi che provocano tensione e naturalmente la violenza distrugge i passi avanti che si fanno con fatica ed è veramente un peccato. Ripeto, vedo un po’ di stanchezza».
E quindi cosa fare?
«Entrambe le parti devono rinunciare ad alcuni pregiudiziali: per esempio bisogna riconoscere alcune risoluzioni dell’Onu e dire basta alla violenza, altrimenti le cose continueranno così senza sosta. Io però non voglio essere negativo, devo dire che Olmert ha fatto concessioni aperte e generose che permetterebbero di avanzare, ma adesso bisognerà vedere il nuovo governo. E dall’altra parte vi sono gruppi tra loro talmente contrastanti che provocano stupidi attentati. Io comunque rimango fiducioso».
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