"«Perfidi giudei» cita Di Segni alla platea, ricordando come la preghiera originaria aveva un'aggettivazione etimologicamente neutra come ebrei «privi di fede»."
Sono alquanto sorpreso che il rabbino Di Segni traduca l'espressione citata secondo quanto già aveva sentenziato la "Congregazione dei Riti" nel 1948, cioè che la parola "perfidi" poteva essere "licite" tradotta come «privi di fede».
Che si abbia messo di mezzo la morale ("licite") per autorizzare una traduzione del tutto aliena dal significato originale latino non mi sorprende. Evidentemente si cerca di manipolare il latino. Ma il latino non è in assoluto, come si asserisce, la lingua della Chiesa, ma è la lingua di Roma antica, che la Chiesa arrivata a Roma , ha trovato e ha acquisito. Non ha inventato, come ha fatto Zamenhof con l'Esperanto, una lingua nuova, ma ha acquisito la lingua latina già esistente, seppur arricchendola di parole nuove.
Ora la parola "perfidus" è stata correttamente italianizzata in "perfido", e la traduzione ha conservato, in più di 2000 anni, l'identico significato offensivo che aveva nel latino classico, cioè di "sleale, falso, traditore" o in senso traslato "malsicuro, infido, insidioso". La parola latina, con le altre parole derivate, è stata usata da Cicerone, Catullo, Orazio, Seneca, ecc.
Ben se accorse il dotto sacerdote Mons. Jakob Ukmar, che fu coadiutore sloveno nella parrocchia di Servola (Trieste) e, dal 1940, giudice presso il Tribunale ecclesiastico di Venezia. Egli scrisse a Giovanni XXIII, che conosceva già da quando era ancora cardinale, fra le altre cose, di togliere dalla liturgia "l'offensiva preghiera dei perfidi giudei". E lo fece a ragione: egli era un fine latinista, che tradusse in latino molti schemi conciliari e anche alcuni testi definitivi. Quindi non c'era da dubitare sulla sua conoscenza del latino.
Alcuni dubbi invece mi sono sorti sulla conoscenza del latino da parte dei contemporanei, non esclusa la Chiesa.
Prendo a esempio la notizia, trovata in Internet, che i vescovi svizzeri, fra le altre cose, autorizzano la messa in latino soltanto ai sacerdoti che conoscono la lingua latina. Da ciò si evince che non tutti i preti conoscono il latino. Questa clausola mi ha fatto riflettere. Che senso ha partecipare a un rito in cui non si capisce l'esatto significato delle parole? Per conto mio la clausola doveva essere estesa anche ai fedeli, altrimenti si fa un mito e non un rito.
Anticamente non fu così. Sin dalla discesa dello Spirito Santo sui primi credenti tutti compresero il messaggio nella loro lingua. E' vero che fu un fatto miracoloso, ma di fatto le Chiese acquisirono le lingue dei vari popoli credenti: siriaco, greco, latino, armeno, ecc.
Col passare dei secoli però si formarono nuove lingue e le Chiese non riuscirono a seguire il ciclo evolutivo. Nel Concilio di Trento si sancì in assoluto l'uso della lingua latina. Si arrivò persino a fatti grotteschi. Quando i Portoghesi sbarcarono in India, trovarono con loro immensa sorpresa delle chiese cristiane. Esse celebravano le loro liturgie in siriaco, la lingua di Gesù Cristo. Infatti secondo un'antica tradizione essi ritenevano di essere stati evangelizzati dall'apostolo Tommaso, la cui tomba era lì fra loro: si sono sempre chiamati i Cristiani di S. Tommaso. Nonostante le loro proteste furono obbligati a pregare in latino! E soltanto l'altro secolo fu ripristinato l'antico rito siriaco!
Non vale la pena di soffermarsi sull'uso delle lingue nazionali dei cristiani, che la Chiesa chiama con sufficienza "lingue volgari" o "lingue vernacole", come se esistessero in contrapposizione delle "lingue nobili". Tutte le lingue hanno eguale dignità e nessuna è superiore all'altra.
Delle lingue antiche la lingua cristiana in assoluto è solo il siriaco, perché tale lingua è nata con il Nuovo Testamento; mentre il latino e il greco sono lingue pagane adottate dalla Chiesa, con tutti i loro pregi e difetti.
In ogni caso il "Popolo di Dio", distribuito nelle varie nazioni, ha il diritto di sentire parlare la Chiesa nella propria lingua nazionale e non saranno certo esigue minoranze a oscurare questo diritto che, secondo gli Atti degli Apostoli: "E li udiamo annunziare nelle nostre lingue le grandi opere di Dio" (At 2, 11), è universale e incontestabile.
Se si torna alla questione della "Preghiera per gli Ebrei" esistono oggi due testi: uno di Paolo VI e l'altro di Benedetto XVI. Nel primo si prega affinché gli Ebrei continuino a essere fedeli all'Antica Alleanza", nel secondo affinché divengano cristiani. La questione linguistica è irrilevante, come pure irrilevante il numero di persone che pregano secondo la seconda preghiera.
Non si tratta qui soltanto di nominalismo, ma di una questione essenziale: il vescovo Ravasi, infatti, ha invocato il principio "lex orandi lex credendi".
A parer mio ci troviamo peggio che ai tempi di Sigieri di Brabante. Egli affermava che, secondo la ragione, ci può essere una verità e secondo la fede un'altra. Quindi c'era il pericolo della doppia verità: una di ragione e l'altra di fede.
Invocando il principio "lex orandi lex credendi", si hanno invece due verità fede, perché si prega per lo stesso motivo, la salvezza degli Ebrei, in due modi diversi. Ed entrambe le preghiere sono valide, in quanto sancite in via definitiva da due Papi, senza che l'ultimo abroghi la preghiera del precedente.
Quindi, almeno in questo caso, secondo il principio citato, esiste la doppia verità di fede:
1. Gli Ebrei si salvano se progrediscono sempre nell'amore del nome del Signore e nella fedeltà alla sua alleanza. (Paolo VI).
2. Gli Ebrei si salvano se diventano credenti in Cristo Gesù, ovvero se esplicitamente accolgono il messaggio cristiano. (Benedetto XVI).
Né si può arguire che nel primo caso è contenuto implicitamente il secondo. Si prega semplicemente perché gli Ebrei rimangano fedeli alla loro Alleanza. Per il resto provvederà il Signore.
A parer mio hanno ragione i rabbini italiani di sospendere il dialogo. Perché quando si dialoga bisogna sapere l'esatto significato dei termini che si usano.
Peraltro è una cosa che mi interessa personalmente, perché gradirei sapere dalla Chiesa se posso sperare che tutti i miei parenti ebrei deceduti, possano essere andati in paradiso o, in altri termini, quale differenza sostanziale esiste tra il martirio di P. Kolbe e il fatto che un mio zio ebreo è finito nelle camere a gas di Auschwitz.
Saluti
Dario Bazec