Il colonialismo va veramente in pezzi, e lo fa malamente, perché le vecchie potenze coloniali, come il Belgio, la Francia, il Portogallo, non hmmo saputo o voluto traghettare saggiamente i paesi occupati dalla dominazione alla libertà, come per esempio aveva saputo fare la Gran Bretagna con l’India, dove aveva creato una robusta struttura statale locale.
A gennaio il Portogallo riconosce l’indipendenza dell’Angola, e il “Movimento per l’indipendenza dell’Angola”, che aveva a lungo combattuto i portoghesi, proclama la nascita della Repubblica popolare dell’Angola, ma alla lotta per l’indipendenza segue subito una lunga e sanguinosa guerra civile.
Il secolo è tale che quando si usa l’aggettivo “democratico” è segno che vige una dittatura, così come quando l’aggettivo è “popolare” è certo che si tratta di una camarilla al potere.
L’Angola è tra i paesi africani di nuova indipendenza a conoscere i peggiori anni della sua storia, anni consumati tra lotte intestine e fame generalizzata.
A giugno è la volta del Mozambico, anch’esso colonia portoghese, a seguire le orme non felici dell’Angola, e altre sciagure colpiscono molti paesi africani. Nel Corno d’Africa i guerriglieri del Fonte di Liberazione Eritreo riprendono i combattimenti contro gli occupanti etiopi.
A casa nostra viene salutata con entusiasmo generale la legge che abbassa la maggiore età da 21 a 18 anni. Per i risultati che produce forse sarebbe stato meglio alzarla fino ai 25.
Ci consola il premio Nobel per la Letteratura al nostro grande poeta Eugenio Montale, forse uno dei non molti Nobel assegnati per il merito e non per alchimie politiche.
Giorni davvero molto tristi per la Cambogia. Il 17 aprile i khmer rossi di Pol Pot instaurano un regime comunista così spietato da essere considerato genocida: su una popolazione di undici milioni di abitanti, vengono assassinati un milione e 700mila cambogiani, rei – letteralmente – di non avere le mani sufficientemente callose. Un regime così efferato che indurrà il vicino Vietnam, neanche lui in odore di santità, a intervenire militarmente nel 1979, quattro anni dopo, rovesciare Pol Pot e distruggere il suo regime.
Combattimenti furiosi anche in Libano, dove i falangisti cristiani di Pierre Gemayel, i musulmani di sinistra di Walid Joumblatt, i guerriglieri palestinesi e l’esercito regolare libanese si affrontano, si scontrano, con risultati esiziali per quella che era stata chiamata un giorno la “Svizzera del Medio Oriente”. Una guerra civile a più facce dove le alleanze si formano e si sciolgono con la stessa velocità, a solo danno della popolazione.
A novembre muore in Spagna Francisco Franco e sale al trono il suo “pupillo” Juan Carlos di Borbone, nato a Roma durante gli anni d’esilio della sua famiglia. Il re riuscirà a portare la Spagna dalla dittatura alla democrazia con grande personale impegno, forte volontà e senza che le vecchie ferite abbiano a riaprirsi.
Altro rumore di armi nel Laos, dove, a novembre, è rovesciata la monarchia a vantaggio di una Repubblica democratica popolare, che naturalmente non è popolare né democratica.
A volte serve occuparci un po’ anche “de minimis”. E torniamo in Italia.
Parliamo per esempio del “Mosè” televisivo che, nei limiti della rielaborazione di un sceneggiato a puntate della RAI, ha una sua dignità e presenta una batteria di attori di livello, come Burt Lancaster (Mosè). Laurent Terzieff, Ingrid Thulin e così via.
Ne emerge con semplicità la storia di un popolo di schiavi che ha fede nel suo capo e nel suo destino. Decorosa la sceneggiatura e di grande efficacia e suggestione le scene corali. Insomma, un buon prodotto, addirittura strepitoso se messo a confronto con “talpe”, “famosi” (ignoti), e altri pseudo reality show che seguiranno.
Il Mosè televisivo però non piace al marxista-leninista “Quotidiano dei Lavoratori”, letto da una aristocratica e rumorosa schiera di quanti verranno poi sbrigativamente definiti “radical-chic”.
Il quotidiano traccia un curioso parallelo tra Mosè e Moshé Dayan, uniti da pulsioni imperialiste, e sembra turbato dal fatto che “mentre l’aggressività del sionismo emerge nuovamente nelle pesanti minacce che Israele con insistenza sta rivolgendo ai paesi arabi”, ci si metta pure il Mosè della TV, concludendo che la RAI con il Mosè ha passato il segno.
L’estensore dell’articolo, Vincenzo Vita, conclude rampognando la RAI per “l’impostazione scopertamente filo-sionista del teleromanzo, il cui filo conduttore sembra essere da un lato la dimostrazione della validità nei secoli della supremazia del popolo ebraico” e dall’altro “renderebbe lecita, col linguaggio di oggi, l’aggressività d’Israele conto il popolo palestinese”.
Mah. Forse Mosè avrebbe fatto meglio a tornarsene da dove era venuto, restituire i “territori occupati”, e rimettersi a costruire piramidi.
De minimis, lo si è detto.
Il 1975 è un anno importante nella storia delle relazioni tra la Chiesa cattolica e gli ebrei. Il Pontefice Paolo VI dà l’annuncio che sono stati resi pubblici gli “Orientamenti e suggerimenti per l’applicazione della Dichiarazione conciliare Nostra Aetate nel campo delle relazioni ebraico-cristiane”. Si tratta di “Direttive” seguite al Concilio Vaticano II, che correggono le parti della liturgia cattolica ritenute offensive dagli ebrei. Gli ebrei ora non possono più essere ritenuti responsabili degli accadimenti di duemila anni prima, perché “Per quanto riguarda il processo e la morte di Gesù, il Concilio ha ricordato che quanto è stato commesso durante la Passione non può essere imputato né indistintamente a tutti gli ebrei allora viventi, né agli ebrei del nostro tempo”.
Questa nuova posizione della Chiesa non sembra il ripudio totale di una calunnia che nei secoli è costata molto cara agli ebrei, e che ha costituito la base di quell’antisemitismo il cui luttuoso e sanguinoso apice è stato raggiunto con la Shoà, ma ora, con queste “Direttive” che condannano inequivocabile ogni forma di antisemitismo, i cattolici che si dicono antisemiti si pongono fuori dalla Chiesa.
Un passo “revisionista” importante dunque, che anticipa la clamorosa visita “penitenziale” di Papa Giovanni Paolo II nella Sinagoga di Roma undici anni dopo, il 13 aprile del 1986.
Finisce con il ritiro delle forze statunitensi la guerra del Vietnam, e sui muri di Roma si legge “Oggi in Vietnam domani in Palestina” seguita da una falce e martello e la sigla LGCI, dove la “C” sta per “comunista”.
Da destra si risponde con “10,100,1000 Fosse Ardeatine”, là dove ancora si possa parlare di sinistra e di destra e non di ottusi teppisti.
Unisce questo singolare connubio l’odio per gli Stati Uniti e per Israele, che funge da sostitutivo poco mascherato di un antisemitismo tout court.
E’ difficile non immaginare antisemita la maggioranza “blindata” delle Nazioni Unite e dei suoi vari organismi, una maggioranza costituita dai voti della costellazione sovietica e quelli del mondo islamico.
L’UNESCO, l’organizzazione dell’ONU che si occupa di politiche culturali, decide a sorpresa l’esclusione d’Israele dal suo interno. Votano compattamente contro questa esclusione i paesi europei occidentali, gli Stati Uniti, i paesi del Commonwealth e taluni paesi sudamericani.
Che uno Stato ebraico venga estromesso dal “centro della cultura mondiale” suona paradossale e grottesco.
L‘Olanda invece, l’Olanda di Baruch Spinoza, si appresta invece a festeggiare i 300 anni dall’uscita del primo numero del giornale ebraico “Gazeta de Amsterdam”, rigorosamente in lingua spagnola. Interesserà sapere che la prima pagina era tutta dedicata all’Italia.
L’ONU si macchia di un’altra infamia..
Il 17 ottobre la III Commissione dell’Assemblea delle Nazioni Unite approva un progetto di risoluzione che definisce il sionismo “una forma di razzismo e di discriminazione razziale”.
Lo firmano 70 paesi, (tra i quali la Spagna di Franco!). 28 i voti contrari (i 9 della CEE, tra cui l’Italia), gli Stati Uniti, l’Australia, la Nuova Zelanda, il Canada, i paesi scandinavi, la Finlandia, l’Uruguay e Costa Rica. Astenuti Argentina, Venezuela, Romania. Quest’ultima in aperta polemica con il Cremlino.
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