Per lui l'America nutre "ostilità verso tutti gli islamici", l'11 settembre lo cita di sfuggita è Paul Salem, scelto come commentatore dal settimanale
Testata: L'Espresso Data: 21 novembre 2008 Pagina: 19 Autore: Paul Salem Titolo: «Speranze a oriente»
Direttore del Carnegie Middle East Center, Paul Salem, un libanese educato alla Harvard University la cui prima lingua è l'arabo, ha ricoperto vari incarichi alla American University di Beirut, storica fucina intellettuale dell'antisionismo militante. Sostenitore del "dialogo nazionale" con i terroristi di Hezbollah, Salem commenta per L'ESPRESSO del 21 novembre 2008 l'elezione di Barack Obama a presidente degli Stati Uniti. Senza che il settimanale dell'ingegner Carlo De Benedetti spieghi chi sia questo analista chiamato a prefigurare gli effetti che il cambio politico a Washington sortirà nel mondo arabo. La sua premessa, del tutto prevedibile tenendo conto della sua formazione, della sua carriera e delle sue posizioni politiche, è che il mondo arabo sia stato, negli anni dell'amministrazione Bush, sottoposto a un attacco ispirato all'odio generalizzato verso tutti i musulmani. Non è affatto così: l'America ha in realtà reagito all'attacco dell'11 settembre (un remoto dettaglio, nell'analisi di Salem) combattendo i terroristi islamisti, non i musulmani. Se Salem spera in un cambio di strategia, deve sperare necessariamente in un "dialogo" con i terroristi e i fondamentalisti totalitari, non con l'islam. Quello, l'amministrazine Bush non l'ha mai interrotto.
Ecco il testo dell'articolo, "Speranza a Oriente":
L'elezione di Barack Hussein Obama alla presidenza degli Stati Uniti il 4 novembre ha avuto un forte impatto sul mondo arabo e musulmano, ed è stata seguita con crescente emozione dall'opinione pubblica. Pochi avrebbero potuto pazientare più a lungo prima di assistere alla sconfitta di un'Amministrazione considerata aggressiva, antiaraba e antimusulmana, e pochissimi credevano che un simile potente governo - che governa non soltanto l'America ma domina il mondo intero - potesse essere sconfitto da una semplice elezione. La maggior parte era sicura che gli americani non avrebbero potuto e voluto eleggere un uomo di colore, giovane, oriundo del Kenya e con un secondo nome musulmano.
L'elezione di Obama ha cambiato il volto di un Paese: dall'America dell''aggressivo uomo bianco crociato' - che riportava alla mente due secoli di colonialismo occidentale fino alla storia più antica delle crociate - si è passati all'America di un portavoce degli emarginati, degli schiavi e degli oppressi. L'elezione di Obama ha riportato alla memoria il ricordo di John Kennedy e Martin Luther King, oltre a evocare l'immagine di un'America più amabile: non l'America dell'Iraq, di Guantanamo e del Vietnam, bensì l'America della democrazia, dei diritti umani e delle pari opportunità.
Il pubblico che ha seguito lo spettacolo degli elettori in festa che a Chicago cantavano in coro 'Yes we can' si è emozionato. Si è commosso vedendo le lacrime del reverendo Jesse Jackson che in quel momento pareva rivolgere il proprio pensiero alle sofferenze di milioni di persone di ogni latitudine, ridotte in schiavitù, colonizzate ed emarginate.
L'emozione delle platee che dal Medio Oriente hanno seguito le elezioni e i relativi festeggiamenti è stata acuita e resa più intensa dal fatto che la speranza alla quale hanno assistito ha accentuato ancor più il contrasto con le condizioni politiche repressive nelle quali vivono nei loro Paesi. Il coro di chi cantava 'Yes we can' a Chicago è parso quasi essere riecheggiato da cori di sentimenti opposti, 'No we can't', nella maggior parte della regione. Il pacifico trionfo dei cittadini americani ottenuto tramite una semplice elezione democratica ha esacerbato il dolore verso i regimi repressivi, dittatoriali e antidemocratici di molti popoli, per i quali l'unica scelta a disposizione in fatto di leadership di solito è tra chi è al potere e il suo diretto discendente, e anche in questo caso la risposta che si dà per scontata deve essere un 'no'.
Il 5 novembre i riformisti democratici e liberal del mondo arabo e del mondo musulmano si sono ritrovati investiti di un nuovo potere, mentre tra gli autocrati e i radicali c'è un profondo imbarazzo. Con le politiche di Bush incentrate sulla guerra preventiva, il cambiamento di regime, le ostilità verso tutti gli islamici - parte integrante della sua 'campagna di democratizzazione' - gli autocrati mediorientali avevano potuto screditare gli inviti alla democrazia con enorme facilità. I radicali della regione, da Bin Laden ad Ahmadinejad, erano stati molto fortunati che Bush, Cheney, Rumsfeld e altri ancora fossero così conformi alla loro retorica globale di un mondo musulmano preso di mira da 'imperialisti bianchi colonialisti crociati militari e petrolieri'. Obama non rientra in nessuno di questi stereotipi.
Col passare del tempo l'incredulità e l'emozione provati il 4 novembre inevitabilmente svaniranno, per essere poi sostituiti dalle complessità della politica di tutti i giorni, dalle varie esigenze delle crisi in Iraq, Iran, Afghanistan, Pakistan e del conflitto arabo-israeliano. Nondimeno, le elezioni del 4 novembre 2008 resteranno impresse in Medio Oriente come un avvenimento determinante insieme a episodi di gran lunga meno fausti come l'occupazione dell'Iraq nel marzo 2003 e gli attentati dell'11 settembre 2001.
Quando il presidente eletto Obama formerà la sua squadra di governo scegliendo gli uomini deputati a curare gli Affari Esteri, le opinioni pubbliche e i potentati mediorientali seguiranno da vicino e con grande attenzione tutto ciò che egli intraprenderà per constatare se il cambiamento che la sua elezione ha rappresentato si rifletterà in un cambiamento sostanziale in politica estera. Mentre le crisi divampano in tutta la regione, il Medio Oriente ha un bisogno estremo di un approccio completamente nuovo.
traduzione di Anna Bissanti
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