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Il Foglio Rassegna Stampa
21.11.2008 Liberati da Guantanamo, tornano ad essere terroristi
almeno trenta i casi: l'analisi di Giulio Meotti

Testata: Il Foglio
Data: 21 novembre 2008
Pagina: 3
Autore: Giulio Meotti
Titolo: «Dal Jihad al Jihad passando (pacificamente) a Guantanamo»
Da pagina 3 de Il FOGLIO del 21 novembre 2008 "Dal Jihad al Jihad passando (pacificamente) a Guantanamo":

Roma. Secondo il Wall Street Journal, sono storie che rovineranno il sonno di senatori e congressmen. Ma soprattutto del presidente in pectore Barack Obama. E’ lui che si è assunto il compito di chiudere Guantanamo. Ma c’è una cifra che pesa come un macigno sulla liquidazione idealistica del carcere americano a Cuba. A Guantanamo si trovano 270 detenuti. Obama vuole reimpatriarne la maggioranza e per “50-80” di loro, ancora da precisare il numero esatto, bisogna istruire le pratiche processuali (non chiare le modalità, se il diritto penale puro o la forma ibrida delle “corti speciali” ideata del professor Amos Guiora). Ieri un giudice federale ha reimpatriato cinque detenuti algerini in carcere dal 2001. Trenta è il numero di combattenti rilasciati e tornati sui campi di battaglia jihadisti. Per morire da “martiri” o essere catturati dagli americani. Ne ha scritto il senatore repubblicano John Cornyn su Usa Today: “Almeno trenta ex detenuti di Guantanamo sono tornati a combattere contro gli americani”. La cifra arriva dal Pentagono. E’ altissima. Perché questi trenta non sono parte del centinaio di “irriducibili”, i vestiti con le tute arancioni, sbattuti in isolamento in celle di colore bianco e con lo stretto necessario. Sono detenuti che hanno saputo celare la fede fanatica e dissimularla al punto da convincere anche il Pentagono. L’ultimo recidivo è il kuwaitiano Abdullah Saleh al Ajmi, a maggio ha fatto otto morti a Mosul, in Iraq. Una storia tanto più incredibile perché le sue poesie sono entrate a far parte di una collezione di versi. Sono raccolti in “Poems from Guantanamo”, pubblicato dalla casa editrice dell’Università dell’Iowa. Un board member gli domandò prima di rilasciarlo: “Credo che la devozione alla tua religione sia genuina, che strada e direzione questa tua devozione prenderà se ti lasciamo andare?”. Ajmi rispose: “For peace”. Forse intendeva “for pieces”, per fare a pezzi i nemici. Il mullah Shazada fu rilasciato l’8 maggio 2003 e ucciso un anno dopo a Kandahar. Maulavi Ghaffar è rimasto ucciso mentre programmava attacchi contro la polizia afghana. Mohammed Ismail lasciò Guantanamo e dopo pochi mesi era ancora nelle mani americane. “Ho passato un buon periodo a Cuba” dirà. “Mi hanno dato lezioni di inglese”. Ruslan Odizhev è stato ucciso nel giugno 2007 dalle forze russe. Proveniente dall’omonimo gruppo tribale, che gli inglesi chiamavano “i lupi” per la ferocia, Abdullah Mehsud cadde nelle mani degli americani mentre era al fianco dei talebani. Aveva con sé una carta d’identità afghana. Per due anni viene interrogato a Guantanamo. Si prende gioco degli inquirenti, i cui metodi d’interrogatorio non sono così crudeli come è stato detto, li convince di essere di “scarso interesse”, smarrito fra avvenimenti più grandi di lui. Lascia il “Gulag dei nostri tempi”, stando alla definizione di Amnesty, con un impegno a non farsi più coinvolgere nel terrorismo. Torna inWaziristan, instaura l’emirato e si fa saltare in aria pur di non lasciarsi catturare. Al Ajmi è autore della poesia “Miranda” apparsa nell’antologia di versi: “Il nostro rilascio non è nelle mani degli avvocati e dell’America, ma di Colui che ci ha creato”. Il New York Times prese una sonora cantonata paragonandone i versi alla “habsiyya”, la poesia araba che canta la sofferenza dei detenuti. La verità è che nessuno conosce fino in fondo questi buchi neri rinchiusi ai tropici. Obama non potrà chiudere gli occhi e sperare che vada tutto bene. Molti di loro hanno sognato il rilascio per tornare a uccidere “servi negri” come lui

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