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La Repubblica Rassegna Stampa
19.11.2008 Ma chi rifiuta la leva in Israele è libero dopo pochi mesi
nell'articolo di Stabile invece sembra un perseguitato

Testata: La Repubblica
Data: 19 novembre 2008
Pagina: 41
Autore: Alberto Stabile
Titolo: «Quelle serenate nelle celle d´Israele per le soldatesse che scelgono la pace»
Da La REPUBBLICA del 19 novembre 2008, riportiamo un articolo di Alberto Stabile su alcune giovani  israeliane che hanno rifiutato il servizio di leva.
Stabile non precisa che, dopo alcuni mesi di fermo, i renitenti alla leva in Israele tornano liberi, esonerati dal servizio militare.

Ecco il testo "Quelle serenate nelle celle d´Israele per le soldatesse che scelgono la pace", pagina 41:

Chi si fosse trovato a passare, sabato scorso, sul far del tramonto, lungo la strada che da Tel Aviv porta a Rishion Lezion, sfiorando le reti metalliche sormontate da volute di filo spinato che circondano la prigione "400", si sarebbe trovato di fronte a una scena incredibile. Lì sullo spiazzo adiacente alle baracche dove sono richiusi i condannati della giustizia militare, un´ottantina di giovani, fra pubblico e artisti, partecipavano ad un concerto rock, con tanto di chitarre elettriche, batterie, amplificatori e persino un piccolo impianto di luci che ne illuminava le danze. Una mini-Woodstock, come ha scritto Yigal Sarna su Yiedioth Aaronoth, che penetrava le mura del carcere e risollevava l´animo dei reclusi.
Il raduno, in quel luogo penoso, non era la scelta maldestra di un´organizzazione di eventi musicali e neanche l´approdo casuale di qualche decina di rockettari dilettanti in cerca di spazio, ma il gesto di solidarietà, le mani protese oltre la rete, di alcuni giovani israeliani nei confronti di cinque ragazze, poco più che adolescenti, rinchiuse nella prigione "400" per essersi rifiutate di svolgere il servizio militare nei Territori occupati.
La storia è questa. Le cinque ragazze, Mia Tamarin, 19 anni, di Tel Aviv, Tamara Katz, 19 anni, di Ramat Ha Sharon, Omer Goldman, 20 anni, Raz Bar-David Varon e Sahar Vardi (delle ultime due non è stato possibile stabilire l´età né la residenza) compaiono tra i firmatari della cosiddetta "lettera dei maturandi" pubblicata nell´agosto del 2008 in cui si condanna «la politica di segregazione, oppressione e uccisioni nei territori occupati».
È questa un´iniziativa nata fra gli studenti che stanno per concludere le scuole superiori e rispondere alla chiamata di leva (in Israele, obbligatoria). Ma non sarebbe corretto chiamarla un´iniziativa pacifista perché alcuni di questi studenti sono pronti a svolgere qualsiasi servizio tranne che servire l´occupazione. Molti di loro sono disponibili a lavori di volontariato. Ma non vogliono partecipare alle umilianti procedure nei confronti dei palestinesi in uso nei posti di blocco e non vogliono uccidere, né essere uccisi in operazioni talvolta troppo genericamente definite "antiterrorismo".
La motivazione che li anima è opposta a quella che muove altri loro coetanei, i cosiddetti "giovani delle colline", tardi epigoni di una colonizzazione che non ha più alcuna ragion d´essere, pronti a piazzare i loro caravan sulle terre dei palestinesi e magari a scontrarsi con l´esercito che li vuole sloggiare. Oppure, ad affermare il loro indiscutibile diritto sulla terra dei padri, scagliandosi contro gli ulivi «degli arabi», come chiamano i palestinesi, al tempo del raccolto. Quella dei "maturandi" è un´altra Israele.
Le cinque liceali della prigione "400", hanno ricevuto il sostegno d´organizzazioni militanti come "Ometz lesarev" (Il coraggio di rifiutare) che, pur affermando il diniego di combattere oltre i confini del ?67, si considera sionista. Altra solidarietà è venuta loro dal gruppo femminista "Profil hadsh" (Nuovo profilo), che aiuta gli obbiettori e soprattutto le obbiettrici a trovare il modo di farsi esonerare dal servizio. Perché, la leva, in Israele è sì obbligatoria, ma chi proprio non se la sente, una scappatoia la può sempre trovare, vuoi attraverso l´aiuto di uno psicologo disposto a vedere nel rifiuto i sintomi del disadattamento, vuoi ostentando un alto profilo religioso, magari non del tutto vero.
Mia e le altre, però, non sono per i sotterfugi. Appena arruolate, hanno voluto essere coerenti con la firma messa in calce alla "lettera dei maturandi". E sono cominciati i guai perché la disobbedienza pubblica e magari ideologicamente motivata è proprio quello che l´esercito non tollera. In breve per tutte e cinque è cominciata una dura trafila di arresti, interrogatori, processi, punizioni, dalla quale, di tanto in tanto, vengono fatte emergere nella speranza che sia intervenuto un pentimento. Ma alla fine di ogni «licenza», tutte e cinque tornano a varcare i cancelli della prigione «400».
In una di queste pause di libertà, Omer ha parlato di una sua piccola debolezza. «La cosa più dura - ha confessato - è non potere ascoltare la musica». Perché, a quanto pare, nelle carceri militari israeliane, a un giovane condannato per obiezione di coscienza, è permesso uscire di tanto in tanto, ma non è permesso portare un i-Pod. E si sa quanto la musica per le nuove generazioni sia più che un semplice passatempo, un rito, un bisogno uno sfogo dell´anima.
E´ per questo che gli amici di Omer, dopo essersi passati la voce, si sono presentati davanti alle reti della prigione con le loro chitarre e le loro batterie. Per dire a lei e alle sue compagne, con la forza della loro musica, che non sono più sole.

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