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La Repubblica delle donne Rassegna Stampa
18.11.2008 La letteratura come antidoto alla solitudine
un articolo dell' esule iraniana Dalia Sofer

Testata: La Repubblica delle donne
Data: 18 novembre 2008
Pagina: 29
Autore: Dalia Sofer
Titolo: «La città delle rose»
Pubblichiamo un articolo della scrittrice Dalia Sofer apparso su La REPUBBLICA delle DONNE sabato 15 novembre a pagina 29. Esule iraniana, autrice del romanzo autobiografico “La città delle rose” (Piemme) recensito in questa rubrica e selezionato dal New York Times tra i cento libri più significativi dello scorso anno, la Sofer vive ora a New York dopo essere fuggita con la famiglia dall’Iran dei mullah.

Ebrea in una nazione islamica. Sefardita in mezzo agli ashkenaziti di Israele, “finta francese” nel mio, molto francese, liceo. Iraniana che deve dare le impronte digitali all’ufficio immigrazione americano. Esotica, fascinosa persiana ai party di New York. E così via: la lista è lunga. Il fatto è che tutti commettiamo questo peccato: escludiamo, dividiamo, irridiamo, maligniamo su chi appare diverso da noi. E lo facciamo soprattutto per salvaguardare le nostre illusioni di purezza e di potere. Quando ero piccola trovavo conforto nel “Piccolo Principe” di Antoine de Saint Exupery, nelle parole della volpe: “Si vede bene solo col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi”. E’ proprio così, e per me la letteratura è l’unica dimensione in cui possiamo vedere le cose con il cuore. E’ un posto dove le barriere sono meno intrusive. E’ vero d’altra parte che anche nella letteratura l’inclusione e l’integrazione possono rivelarsi un’illusione. Consideriamo Lars Andemening, protagonista del bellissimo Messia di Stoccolma di Cynthia Ozick. Critico letterario misantropo, Lars si convince di essere il figlio di Bruno Shulz, scrittore ebreo polacco ucciso dalle SS. Per leggere in lingua originale i lavori di colui che considera suo padre, Lars impara il polacco e quando la presunta figlia di Shulz appare con una copia di quello che dice essere il manoscritto perduto di Shulz, il Messia, Lars deve scoprire se il manoscritto sia falso, e chiedersi se ancora sia convinto di essere figlio dello scrittore scomparso. Il finale lascia spazio a interpretazioni divergenti, ma ancora più interessante delle risposte è il fatto che Lars cerchi un’identità nella letteratura, rivendichi una parentela con uno scrittore che non ha mai conosciuto e ne desideri studiare la lingua. Orfani nostalgici come Lars Andemening – e come tutti noi, in fondo – possono trovare ospitalità e conforto nei libri, a dispetto dei mille problemi di interpretazione e traduzione. E quello che si perde nella traduzione lo si guadagna in connessione spirituale con gli altri, magari anche solo illusoria. Questo, alla fine, è il solo antidoto che abbiamo per la nostra solitudine.

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rubrica.lettere@repubblica.it

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