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La Repubblica Rassegna Stampa
17.11.2008 Un volume sull'ebraismo a cura di David Bidussa
intervistato da Susanna Nirenstein

Testata: La Repubblica
Data: 17 novembre 2008
Pagina: 29
Autore: Susanna Nirenstein
Titolo: «Ebrei e modernità. Un continuo corpo a corpo con la storia»
Da pagina 29 de La REPUBBLICA del 17 novembre 2008, un' intervista di Susanna Nirenstein a David Bidussa, "Ebrei e modernità. Un continuo corpo a corpo con la storia"

Si può fare una storia dell´ebraismo al di là dell´antisemitismo? E si può smettere di vedere gli ebrei come un popolo misterioso che, con dura cervice, sia restato nei secoli la copia conforme di un mondo originario nel rifiuto di ciò che li circondava? E´ esistito anche per loro, nonostante le comunità apparentemente chiuse in cui vivevano, un continuo rapporto fattuale con la modernità, con la possibilità di adattarsi, cambiare nel tempo, ben prima della emancipazione che dall´800 in poi li tolse dai ghetti e dalla discriminazione e li rifece attori riconosciuti della storia, un rapporto che li ha accompagnati e li accompagna mettendoli in un continuo colloquio con quel che avviene fuori? Certo di questa ipotesi, David Bidussa, direttore della biblioteca della Fondazione Giancomo Feltrinelli e autore di numerosi saggi (sugli ebrei, il sionismo, le origini dell´antisemitismo moderno, la memoria della Shoah in Israele), ha accettato di dimostrarla curando il volume Ebraismo (Einaudi, pagg. 624, euro 98) uscito, dopo Cristianesimo, nella collana «Le religioni e il mondo moderno» a cura di Giovanni Filoramo. Spaziando con originalità attraverso 23 saggi di vari autori, dall´Italia del Cinquecento al chassidismo polacco passando per Spinoza, dal curioso capitolo sugli ebrei chiamati a «contrattare» con Napoleone la loro emancipazione ai tentativi di riforma, dalle nuove identità nazionali agli utopisti o alle riflessioni del dopo Shoah, da uno sguardo al diritto, il cinema e la religione civica israeliana alla realtà americana, dalla bioetica alla santità di Gerusalemme. Facendoci capire che via via, dopo il 70 d.C., Alessandria, Cordoba, Napoli, Amsterdam, la Polonia, Parigi, l´America, Israele naturalmente, sono stati i centri di un corpo a corpo con la storia che ha irradiato un ebraismo vitale e audace.
Nel libro di testi sacri si parla poco o nulla. D´altra parte, come si è detto, Bidussa ha anche scelto di non parlare di antisemitismo, un fenomeno che ha dettato tanti comportamenti negli ebrei. Gliene chiediamo il perché.
«Perché quella parte dell´identità ebraica è già stata narrata. Volevo invece far emerge le riflessioni dettate dal rapporto con la società, dire qual è stata la parte propositiva nello sviluppo, parlare di individui e masse di individui coinvolti nella modernità. E se parlo di un testo, vedere anche questo come prodotto di un tempo: lo Shulchan Aruch ad esempio, il codice di comportamento ebraico, scritto all´inizio del XVI secolo, è giusto metterlo in un contesto in cui nascono anche il Galateo, o il Cortigiano».
Persino i ghetti, la vita nei ghetti, sono tenuti fuori dall´indagine.
«Ho chiesto a quattro persone diverse che affrontassero alcune vicende particolari dell´epoca dei ghetti. Tenendo l´occhio sul confronto con la dinamicità esterna, sui conflitti che essa creava all´interno dell´ebraismo».
Cosa ne è uscito?
«Quattro possibilità di interazione. La scelta di normalizzazione con gli altri senza rifiutarne le sollecitazioni esterne, per esempio: il saggio di Alessandro Guetta sull´Italia dell´inizio XVI secolo ci parla di un mondo che scrive in ebraico e in più lingue giudaiche-italiane producendo cultura alta e bassa, studi sulla religione, l´arte della guerra, la musica, la medicina, l´astronomia... e anche commedie. Oppure l´incontro crea una spaccatura, come ci dice Silvia Berti affrontando l´Amsterdam di Spinoza. Un terzo modello di comportamento è quello di Mendelssohn (studiato da Paolo Bernardini), ovvero l´ingresso dell´assimilazione universalistica nel mondo culturale del Settecento tedesco. C´è anche la quarta opzione, la più nota, quella del muro, ovvero il Chassidismo, (ne scrive Laura Quercioli Mincer), una barriera con l´esterno sì, che assorbe però fenomeni presenti nel XVIII secolo europeo, la rottura di una gerarchia interna, la presenza di un´area femminile, il proporsi come soggetti attivi: anche ciò che potrebbe sembrare un totale rifiuto della modernità, insomma, riflette movimenti dinamici».
Quattro strategie di sopravvivenza diversissime tra loro.
«Non solo di sopravvivenza: si tratta di azioni, pensieri, punti di vista molto creativi che presupponevano un mondo pieno di interrogativi sulla modernità».
E il sionismo, l´ingresso nel mondo geopolitico? Non c´è un capitolo nemmeno su quello.
«La ricostruzione storica è già stata fatta e rifatta. Abbiamo affrontato invece il processo educativo (con Saul Meghnagi) che portò al sionismo, quella didattica che introdusse come necessità, se si voleva essere un attore collettivo moderno, non solo sapere chi si era, ma recuperare il mondo dei mestieri. In Israele la professionalizzazione ebbe le dimensioni di un´acculturazione di massa: usare un bullone in un luogo insieme ad altri diventava un modo per costruire se stessi. Negli ultimi venti anni nel mondo ebraico i modelli pedagogici sono cambiati. Ad esempio saper difendere il proprio territorio, occuparsi della sicurezza, fare la shmirà (guardia) è diventato un fatto di identità culturale, non tecnico, ma educativo».
Nel suo saggio su Israele, sembra che ci sia qualcosa che a lei non piace del mito di Masada, la fortezza dove gli ebrei nel I secolo d. C. preferirono uccidersi pur di non consegnarsi ai romani.
«Non è che non mi piaccia. Penso che Masada significhi non rinunciare a un´istanza di libertà in nome di un accomodamento con la storia. Così come il messaggio di Tel Hai (la collina dove nel 1920 il primo nucleo di difesa ebraica guidato da Josef Trumpeldor venne attaccato e in gran parte ucciso) parla di impegno a restare, costi quel che costi. Ma la domanda è: il mondo ebraico è sopravvissuto grazie all´eroismo di Masada? O invece grazie a Giuseppe Flavio che, per salvarsi, si consegna ai romani e poi scrive la storia di Gerusalemme, o grazie a quel Yochanan ben Zakkay che, dopo la cacciata degli ebrei nel 70 d. C., chiede al potere imperiale di Roma di aprire un luogo di studio a Yavné e quindi rimane con un gruppo di ebrei in Palestina?»
Non sono due modelli che hanno convissuto, l´adattarsi attingendo forza dal coraggio di Masada e Tel Hai, riproponendola?
«Certo, non c´è un solo modo di continuare. Nella storia si sono mantenuti i soggetti che hanno modificato il loro essere con le loro disavventure, non dimenticando però Masada: ma va ricordato che invece non ci sono più né Fenici, né Cartaginesi, popoli che non hanno fatto compromessi identitari».
L´elaborazione della Shoah. Dal libro sembra che nell´ebraismo la riflessione sia ruotata intorno alla presenza o meno di Dio, una domanda primaria.
«E´ una domanda ineludibile. E sta perfettamente dentro il mondo contemporaneo. Il Novecento si interrogò su questo al di là della Shoah, pensi a Nietzsche. Nello specifico ebraico ci sono più angoscia, più smarrimento, ma c´è anche una facile uscita: la risposta alla Shoah è la nascita di Israele. Ma io non credo che Israele sia il risultato del risarcimento alla Shoah. Israele era già lì».
Lei crede che Israele abbia fatto, faccia, un uso politico dei suoi morti nei campi di sterminio? E´ un´accusa ripetuta continuamente.
«No. E mi spiego. La Shoah è avvenuta dentro l´Europa, pensata e perpetrata dagli europei. Allora, le possibilità sono due: se diciamo che Israele è un effetto della Shoah (e io non lo credo), l´accusa a Israele di ricordarmi che cosa ho realmente fatto, non ha senso, perché l´ho fatto. Se invece non accetti questo paradigma, devi dirti due cose scioccanti e scoccianti: 1) che l´identità ebraica non è dovuta solo al tuo antisemitismo e che è un pezzo di storia di Europa, 2) la realtà di Israele sarebbe nata lo stesso. E questo cancella l´eventualità di un uso politico della Shoah. Penso ai ragazzi israeliani che oggi entrano a Auschwitz con la bandiera sulle spalle. Si dice che vogliano impossessarsi della Shoah. Non è così: sono lì per dire che loro ce l´hanno fatta, che c´era una chance ed ha avuto successo, sono lì per andare a trovare una parte del popolo ebraico che non ha avuto la possibilità di vedere il seguito della storia. Questa volta non parlano all´Europa. Parlano a se stessi. E cercano di conciliarsi con il loro passato».

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