domenica 22 settembre 2024
CHI SIAMO SUGGERIMENTI IMMAGINI RASSEGNA STAMPA RUBRICHE STORIA
I numeri telefonici delle redazioni
dei principali telegiornali italiani.
Stampa articolo
Ingrandisci articolo
Clicca su e-mail per inviare a chi vuoi la pagina che hai appena letto
Caro/a abbonato/a,
CLICCA QUI per vedere
la HOME PAGE

vai alla pagina twitter
CLICCA QUI per vedere il VIDEO

Lo dice anche il principe saudita Bin Salman: Khamenei è il nuovo Hitler


Clicca qui






La Stampa Rassegna Stampa
16.11.2008 Così David Grossman descrive il suo tempo
nell'intervista di Francesca Paci

Testata: La Stampa
Data: 16 novembre 2008
Pagina: 33
Autore: Francesca Paci
Titolo: «Impariamo a sperare, Obama ce lo insegna»

Sulla STAMPA di oggi, 16/11/2008, a pag. 33, con il titolo " Impariamo a sperare, Obama ce lo insegna ", Francesca Paci intervista David Grossman. Il testo tocca molti aspetti della narrativa di Grossman, l'aver enfatizzato il riferimento a Obama nel titolo è un cedimento alla moda che vuole Obama mischiato a qualsiasi cosa si scrive. Peccato, l'articolo meritava un titolo migliore.

Ecco l'articolo:

Ssss... sente? Il suono del sogno». David Grossman è seduto nell’affollato ristorante Three Arches, a Gerusalemme. Camicia celeste, occhiali con la montatura sottile, sguardo dolce, s’interrompe per ascoltare le voci intorno a lui: «Palestinesi che parlano arabo, israeliani che parlano ebraico, turisti che parlano la loro lingua, tutti insieme. È così raro, eppure è come dovrebbe essere questo luogo». Il suo nuovo romanzo, (A un cerbiatto somiglia il mio amore, Mondadori), racconta com’è «questo luogo», paure, desideri, il mito e la Storia che gli ha portato via il figlio Uri, militare, morto il 12 agosto 2006, nelle ultime ore della seconda guerra del Libano.
C’è un passo del libro che descrive il rapporto d’amore-odio tra la protagonista Orah e l’autista arabo Sami. Sembra alludere a due popoli che anche quando avranno raggiunto un accordo politico non riusciranno a riconciliare le rispettive narrative. È così?
«Sì, è così. Dopo aver trovato una soluzione politica dovremo sperimentare parecchi anni di coesistenza pacifica. Solo quando sarà spezzato il cerchio del sospetto, dell’odio, della paura, cominceremo una fase nuova. Non immagino un’unica narrativa sul passato, ogni nazione ha la propria, ma un futuro in cui le nostre due narrative s’integrino in alcuni punti e ci rendano entrambi capaci di accettare la storia dell’altro. Un terreno umano comune dove trovarci, noi ad ascoltare cosa abbiamo fatto ai palestinesi nel ‘48 e loro cosa ci hanno fatto negli anni del terrore».
Il romanzo è un viaggio dal buio alla luce, i protagonisti crescono, guariscono, si svelano. Ma si avverte un pessimismo di fondo. Tutti sembrano avere nostalgia di qualcosa.
«Non credo che la cifra del libro sia la nostalgia, piuttosto il potere della vita. La famiglia, l’amicizia, l’amore capace di recuperare uno mezzo morto come Avram. Certo, si respira l’aria pessimista del conflitto. Mi meraviglio sempre che qui ci siano ancora persone capaci di amare, mettere al mondo figli. Un miracolo. Che è poi la ragione per cui ho scritto questo libro, mostrare come anche in una tale situazione, quella d’Israele e la mia personale, sia possibile non cedere al dolore e creare».
Conoscendo dalle cronache della morte di suo figlio, il lettore interpreta però l’ansia di Orah come un presagio.
«Il lettore sa cosa è accaduto nella realtà ma ignora la fine del libro. Deve distinguere vita e letteratura. Come in molti miei romanzi precedenti, la fine è aperta, nelle mani di chi legge».
Dice che è un miracolo veder fiorire l’amore in questo contesto. Come mantenere la speranza in una pace possibile?
«Se collabori con la disperazione finisci per cederle. Il modo in cui approcciamo la realtà la condiziona. Le difficoltà tra israeliani e palestinesi sono distorte da tutti questi anni di odio e guerre. L’ansia paralizza. Eppure c’è qualche speranza. Guardiamo la dimensione globale: Israele ha fatto pace con Egitto e Giordania, ci sono diversi Paesi arabi impegnati a risolvere il conflitto israelo-palestine per contenere gli estremisti che li minacciano in casa, capita sempre più spesso che il premier israeliano parli di dividere la terra con i palestinesi. È poco, certo, ma fino a pochi anni fa sarebbe sembrato un’utopia. Per questo, nonostante i suoi limiti, continuo a sostenere l’accordo di Oslo che per primo ha neutralizzato la paura, il sospetto. Non so se resterò fiducioso per sempre, ma per salvarci, dobbiamo riconoscere i piccoli cambiamenti».
Il mondo grande e terribile penetra nei suoi libri per l’infanzia?
«Nello scrivere per i bambini penso a quando i genitori leggeranno loro la fiaba della buona notte. Un’ora intensa, il buio, le ombre, i suoni più acuti, realtà e sogno che si confondono. Da piccolo amavo molto le avventure di Kitush, un mago cattivo che imparava a far del bene. È incredibile quanto ci sfugga il potere del bene. Il nuovo presidente americano Obama ha capito cosa puoi ottenere dalle persone se gli permetti di sperare. Vivendo in Israele so com’è facile essere duri di cuore e che prezzo si paga. Obama ha formulato la capacità di cambiamento. E guardate l’effetto anche qui, a Gerusalemme: per la prima volta c’è un sindaco laico, Nir Barkat».
Vede all’orizzonte un Obama israeliano?
«No. Tra i nostri leader, Bibi Netanyahu, Ehud Barak e Tzipi Livni, solo la Livni ha un’attitudine al cambiamento. Ma neppure lei ha fatto i passi necessari per dare speranza agli israeliani».
È nato il nuovo Meretz, il partito di sinistra degli intellettuali. Oz, Yehoshua, Avraham Burg. Manca solo Grossman.
«Non ho intenzione di candidarmi, voglio scrivere. Ma li sostengo: Israele ha bisogno di un partito che si batta chiaramente per la soluzione "Due Stati". Lo spazio c’è, alla Knesset la sinistra potrebbe avere 15 seggi e ne ha solo un terzo. Chiunque sia eletto premier, Livni o Netanyahu, non potrà che negoziare, ma sotto la pressione della destra religiosa. Meretz sarà la forza contraria».
La società israeliana è pronta a questa spinta? C’è una nuova generazione che incoraggia, come voi, una svolta?
«Con Oz e Yehoshua scherziamo dicendo che vorremmo veder emergere nuove leve per non dover viaggiare tanto e parlare del conflitto. Mi è piaciuto molto il libro di Ron Leshem, Tredici soldati. E ci sono altri bravi scrittori giovani. Ma politicamente sono riluttanti. Sembrano delusi. Ai miei tempi ci si tuffava nel vuoto lasciato dalla politica, loro restano in disparte».
Sta già lavorando a un nuovo libro?
«Solo piccole cose ma ho bisogno di tempo. Mi piacciono i lunghi periodi, lo scrittore e il libro cambiano. A un cerbiatto somiglia il mio amore ha richiesto cinque anni perchè è un romanzo epico, epico e domestico, la Storia e i dettagli della vita quotidiana. È una protesta contro l’inclinazione contemporanea a uscire dalla realtà, uso un linguaggio minuzioso per descriverla. Nessuno vuole mostrare il proprio dolore e i propri incubi ad alta definizione».

Per inviare alla Stampa la propria opinione, cliccare sulla e-mail sottostante.


lettere@lastampa.it

Condividi sui social network:



Se ritieni questa pagina importante, mandala a tutti i tuoi amici cliccando qui

www.jerusalemonline.com
SCRIVI A IC RISPONDE DEBORAH FAIT