Cominciamo con un passo indietro.
Il 6 dicembre del 1973 Fruttero e Lucentini, i fortunati autori de “La donna della domenica” e collaboratori de “La Stampa”, scrivono su quel giornale un elzeviro. La loro penna è acuta, caustica, intinta nell’umorismo, non tutti però l’apprezzano.
Non l’apprezza, per esempio, la Libia, e sembra addirittura non arrivare a capirlo il nostro governo.
Accade questo. Nel “pezzo” di F, e L., intitolato “Pare che” si parla del nostro vizio nazionale di fare politica a tavolino. Lo spunto è offerto dalla visita di Gheddafi a Parigi e dal suo scortese comportamento nei confronti dei giornalisti e degli uomini di cultura che l’avevano incontrato. La prosa ironica e chiaramente paradossale dei due scrittori non piace all’Ambasciata libica a Roma. Il suo addetto stampa manda una lettera irritata alla Stampa, che la pubblica, seguita da una sapida risposta di F. e L., per i quali l’Ambasciata libica aveva chiesto il licenziamento.
Eppure gli accenti di “Pare che” non potevano essere fraintesi perché, per esempio, immaginavano incontri tra il Presidente francese Pompidou e Ribbentrop, e tra Fanfani e Goering, avrebbero quindi dovuto suggerire all’addetto stampa libico la giusta chiave di lettura.
Il 3 gennaio una breve nota dell’”Espresso” informava che il “Comitato arabo di boicottaggio” aveva chiesto formalmente a Gianni Agnelli il licenziamento del direttore de La Stampa, Arrigo Levi, reo di non avere cacciato Fruttero e Lucentini.
Se la FIAT non avesse ottemperato alla richiesta del Comitato, sarebbe immediatamente scattata la rappresaglia araba e la società torinese non avrebbe più potuto vendere i suoi prodotti nei paesi islamici e le sue proprietà nel mondo arabo sarebbero state nazionalizzate.
La perentoria richiesta del Comitato veniva ulteriormente spiegata e giustificata dal fatto che Arrigo Levi “è ebreo. ha combattuto nel 1947 per Israele” ed è “un sionista che lavora contro gli arabi”.
La stampa italiana e i nostri uomini politici sono concordi nel respingere il ricatto un po’ rozzo degli arabi.
Tuttavia, mentre “negli ambienti della Farnesina”, si legge in un comunicato rilasciato all’ANSA dal ministero degli Esteri, “si fa rilevare che non sono concepibili richieste in contraddizione con i diritti di libertà di stampa”, ma si aggiunge che “alla Farnesina si ritiene comunque che la questione sollevata da parte araba possa e debba essere chiarita, per i tramiti appropriati e nello spirito di amicizia tra il nostro Paese e il mondo arabo”. Cosa c’è da chiarire?
In realtà punti da chiarire ci sono eccome. Due, per esempio.
E’ vero o non è vero che in quegli anni Settanta di cui parliamo ci fu un (tacito?) accordo tra l’Italia e il terrorismo palestinese secondo il quale in sintesi sarebbe stato detto da parte nostra alle varie sigle del terrore “fate quello che vi pare contro Israele, ma non qui contro l’Italia”? E’ vero o non è vero che, come ha dichiarato il 3 ottobre scorso l’ex Presidente della Repubblica Francesco Cossiga a un giornalista di Yediot Aharonot, una sorta di “Lodo Moro” sancì questo patto? Secondo. E’ vero o non è vero che, come asserisce Cossiga, la mattina di ottobre del 1982, prima dell’attentato contro la Sinagoga di Roma, furono ritirate le macchine della polizia messe lì proprio per proteggere i fedeli in preghiera?
Come mai di questa intervista del Presidente Cossiga nessuno da noi ha detto qualcosa o scritto un rigo?
La “questione sollevata da parte araba”, tanto per dirla con il linguaggio della Farnesina, riceve un buon chiarimento appena tre mesi dopo, quando alle 6,40 di giovedì 11 aprile, tre terroristi (o vogliamo chiamarli combattenti per la libertà?) palestinesi entrano in Israele dal Libano e giungono alla cittadina di Kiryat Shmona, appena 4 chilometri e mezzo dal confine. Vengono intercettati dalla polizia che li impegna in uno scontro a fuoco. Ma i tre riparano in un edificio sito proprio vicino ad una scuola che però data l’ora è ancora vuota. Così i tre piombano in un appartamento dove sparano e ammazzano le cinque persone che lo abitano. Poi corrono in un altro edificio, sfondano le porte di altri appartamenti e sparano all’impazzata. Infine si barricano in un appartamento del quarto piano, da dove sparano sui passanti. Alle otto e qualche minuto fanno esplodere una carica che li uccide. Restano diciotto morti, fra cui otto bambini e cinque donne. Venti i feriti, tra cui due soldati israeliani, di cui uno è circasso e l’altro druso, e un poliziotto anch’egli druso. Si chiarisce così di quale questione trattino i terroristi, da noi protetti in cambio di tranquillità.
Il concetto è ribadito ancora più sanguinosamente un mese dopo.
Il 14 maggio un camion porta a casa da Haifa otto donne arabe che tornano dal lavoro.
A un chilometro dal paese di Maalot (e a dieci dal confine con il Libano) un uomo ferma il camion come per fare autostop. L’autista però non si fida e accelera, ma ecco sbucare un secondo uomo che si mette a sparare sul camion. L’autista, ferito, riesce a sfuggire all’agguato, ma sul retro due donne sono morte e le altre sei ferite. L’autista si ferma poi in un piccolo villaggio e parte l’allarme.
Pattuglie israeliane battono il territorio, ma senza risultato. I terroristi (che sono tre) non si trovano. Si saprà più tardi che indossano divise israeliane.
Sono le tre del mattino quando i tre terroristi entrano a Maalot, un centro di 4000 abitanti. Penetrano in un edificio che si trova di fronte alla scuola pubblica religiosa “Netiv Mir”. Bussano a un appartamento e in ebraico si qualificano come “controllo di polizia”. Il padrone di casa, Joseph Cohen, apre e viene subito ucciso. I tre passano poi nella camera da letto dove dormono i bambini. Eliahu, quattro anni, è trucidato da una raffica di mitra. Fortuna, la moglie, incinta di sette mesi, accorre urlando e anche lei è uccisa. Un’altra figlia, Miriam, cinque anni, resta gravemente ferita, ma è viva. L’ultimo figlio, Moshe, diciotto mesi, sordomuto dalla nascita, si nasconde sotto il letto e si salverà.
Malgrado la sparatoria, seguita con raccapriccio e terrore da tutti gli abitanti della palazzina, non sembra ancora che la polizia e l’esercito riescano a intervenire.
I terroristi corrono alla scuola. Al custode chiedono, sempre in ebraico, se in quel momento ci sono bambini nella scuola-collegio. Ci sono quelli della gita di Safed, risponde ignaro il custode. Gli sparano ma miracolosamente è solo ferito.
Proprio in quel momento arriva una jeep militare. I terroristi sparano, il sergente maggiore israeliano, un druso, risponde al fuoco e finalmente può riferire dove si trovano i terroristi. Sono le quattro del mattino.
I ragazzi che dormono nella scuola sono 103, tra i 13 e i 17 anni, quasi tutti della scuola religiosa di Safed, che dista 35 chilometri, e qui in gita turistica di tre giorni. Con loro vi sono tre insegnanti, una soldatessa e due soldati di scorta.
I ragazzi e i loro accompagnatori hanno sentito gli spari, ma poco dopo, quando si vedono davanti tre militari in divisa dell’esercito israeliano e si sentono interpellare in ebraico, pensano ad una pattuglia venuta a indagare sulla sparatoria.
E’ un attimo. I tre fanno alzare le mani a tutti. Una quindicina di ragazzi e ragazze si precipitano ad una finestra del primo piano e si gettano sul prato circostante insieme ai due soldati di scorta, che sono disarmati. Infatti una disposizione del Ministero dell’Educazione vieta l’introduzione di armi nelle scuole, per cui i militari, che hanno lasciato le loro armi nell’autobus scolastico, corrono a riprendersele. Troppo tardi.
Mentre il gruppetto fugge, dalla finestra gli sparano. Restano feriti quattro ragazzi.
Ma è dentro la scuola che comincia la mattanza. Deliberatamente i terroristi puntano alle ragazze (e il motivo è sciaguratamente ovvio: distruggi l’albero se vuoi non avere più frutti) e ne uccidono diciannove, più due ragazzi. Settanta i feriti.
La scuola ora è circondata dai poliziotti e dai soldati, ma dentro i tre terroristi si fanno saltare.
L’agenzia sovietica di stampa, la TASS, riverserà la responsabilità del massacro sugli israeliani, accusati di “perfidia”. Infatti il titolo del dispaccio è “Perfida azione di Tel Aviv”. La strage “è stata causata dalla perfidia dei militari israeliani”.
Invece l’eccidio di Kiryat Shmona dell’11 aprile era stato definito dalla “Sovietskaya Rossia” come “una operazione di partigiani palestinesi contro gli invasori israeliani”.
Per il nostro “Manifesto” il massacro, “a volerlo, con criminale lucidità, è stato il governo israeliano”.
Il 13 novembre Yasser Arafat, accolto con tutti gli onori riservati ai capi di Stato, è invitato a parlare all’Assembla Generale (prima di lui l’onore era stato riservato soltanto a Papa Paolo VI), dove si presenta con la pistola vistosamente al fianco.
Eppure il 1974 era cominciato in Medio Oriente con buoni auspici. A gennaio Israele aveva evacuato la zona del Canale di Suez, che tornava così al governo egiziano (il quale tuttavia non volle saperne di riprendersi Gaza). Un primo passo importante che in effetti porterà alla firma dell’accordo di pace tra Israele ed Egitto, che recupererà ogni centimetro dei territori perduti nella guerra di Kippur del 1973.
Tante cose accadono nel 1974 nel mondo. A febbraio lo scrittore russo Aleksandr Solgenizin è espulso dall’URSS. Il suo “Arcipelago Gulag” aveva recato una straordinaria testimonianza sui lager sovietici ed era riuscito a scuotere le coscienze un po’ intorpidite di tutto il mondo.
In aprile in Portogallo è rovesciata la dittatura di Marcelo Caetano, succeduto a quella, lunghissima, di Antonio de Oliveira Salazar. In luglio cade in Grecia il regime dittatoriale “dei colonnelli”. Dall’esilio viene richiamato Konstandinos Karamanlis. Un’altra dittatura è caduta.