Conta le stelle, se puoi Elena Loewenthal
ed. Einaudi, pp. 264, e17,50
Nella Genesi, il Signore rassicura Abramo: la sua discendenza sarà così numerosa (e dunque maggioritaria, egemone) che sarà impossibile contarla, come le stelle in cielo. La proiezione divina si è rivelata fino ad oggi inesatta, ma certo si contano a decine i discendenti di quel Moise Levi da Fossano, straccivendolo ventitreenne, che nell'autunno 1872 si congeda dagli anziani genitori, prende il carretto, e si dirige verso Torino a cercare fortuna. Sveglio e capace com’è, se la costruisce rapidamente come commerciante di tessuti, rivelando un fiuto formidabile per ogni innovazione. Presto socio in affari del signor Malvano, con bottega in Via Maria Vittoria (allora San Filippo), nel giro di una dozzina d’anni diventa uno degli esponenti più rispettati della fiorente comunità ebraica. Edificherà una solida casa borghese dalle parti di piazza Carlina, là dove prima si raggrumavano le catapecchie del ghetto.
Nel suo nuovo romanzo (Conta le stelle, se puoi, ed. Einaudi, pp. 264, e17,50), Elena Loewenthal racconta con pietas affettuosa i centotrent’anni della grande famiglia patriarcale di Moise, albero fronzuto i cui rami si sporgeranno anche verso il Medio Oriente e le Americhe, o più semplicemente verso le campagne d’origine. Il tono è quello avvolgente della favola, con le sue iterazioni rassicuranti, le sottintese moralità. Con una frase ricorrente: «A dire più o meno il vero». Perché ogni memoria, anche la più fedele, consiste in una continua riscrittura, e anzi esige una elaborazione incessante, in cui la parte di reinvenzione non è meno essenziale, specie nel creare i miti fondativi di una famiglia.
Patriarca esuberante che a 70 anni vorrà partire volontario per la guerra, «Moisín» avrà vita lunghissima, due mogli, sei figli, innumerevoli nipoti e pronipoti, a prevalenza femminile. Sono proprio queste le figure che l’autrice ritrae con maggiore empatia: l’anello forte della catena, pazienti, costruttive, eppure capaci di scegliere e perseguire con fermezza la propria strada a dispetto dell’autorità paterna. Come l’avo, rivelano una notevole predisposizione al nomadismo e all’avventura, chi in Palestina a lanciarsi nelle sfide dei kibbutz nascenti, chi a tentare fortuna oltre Oceano, chi a curare l’anemia mediterranea in Sardegna.
Come in ogni saga famigliare, incontri fatali, amori imprevedibili, matrimoni, figli e tragedie improvvise si intrecciano e si compongono nel ritmo profondo che governa il respiro delle generazioni, nell’accettazione corale dei doni della vita. Dove gli accadimenti memorabili (Toscanini che dirige Wagner al Regio, i primi tram elettrici, il voto alle donne, l’arrivo del telefono) si mescolano al lessico famigliare (il gustoso impasto di ebraico e piemontese che Primo Levi ha fissato in Argon, il memorabile racconto del Sistema periodico) e alle abitudini che fanno l’identità di un clan: i nomignoli (Gambalesta, «i nonni del piroscafo»), i riti festivi, le gravidanze e gli svezzamenti, i bambini che giocano con i campioni di stoffa, le fedeli domestiche, l’albero di Natale che entra di straforo in casa Levi, le prime automobili che la primogenita di Moise guida con una passione quasi rabbiosa.
Ma fin qui resteremmo nelle convenzioni di un genere assai gradito ai lettori. Quello che dà al romanzo uno scatto speciale è l’invenzione di una Storia diversa, in cui quel brutto muso di «Mussolino», come lo chiama Moise, muore di uno «s-ciupún» nel 1924, poco dopo il delitto Matteotti, e addirittura nel 1938 (l’anno delle leggi razziali!) il re abdica e nasce la Repubblica. Niente guerra, niente deportazioni, niente lager. Nessuna camera a gas o fossa comune.
Nella nota finale, Elena Loewenthal dichiara di non aver voluto arrendersi alla verità della Storia, al silenzio dei morti innocenti. Ne ha immaginato un’altra, parzialmente inventata ma verosimile, come se non fosse successo quel che è successo, per non darla vinta alla morte, per restituire alle vittime la vita normale che non hanno potuto avere, per farle vivere ancora, tra di loro e insieme a noi. Espungere la Shoah dal racconto non significa rimuoverla, ma semmai sottolineare l’enormità dell’offesa, renderla ancora più intollerabile, obbligarci a non distogliere lo sguardo da altre famiglie Levi che con diverso nome le cronache dell’orrore globalizzato ci consegnano ogni giorno. Tra l’indicibile alterità della Shoah e la tranquilla dicibilità del quotidiano, scocca una scintilla che dà un senso nuovo e inatteso alla conta delle stelle nel cielo delle generazioni.
Ernesto Ferrero
La Stampa