Uniti contro Israele è l'augurio del quotidiano comunista
Testata: Il Manifesto Data: 08 novembre 2008 Pagina: 9 Autore: Michele Giorgio - Michelangelo Cocco Titolo: ««Gli islamisti dentro l'Olp per superare i dissidi» - «Gli islamisti dentro l'Olp per superare i dissidi»»
A Hebron arrivano gli uomini delle forze di sicurezza dell'Autorità palestinese, forse con il compito di combattere Hamas e il terrorismo. A Michele Giorgio del MANIFESTO non sembra affatto una buona notizia perché il "vero problema" sono i coloni. In realtà, Israele sta già prendendo misure contro i coloni estremisti e gli insediamenti illegali. Nuovi insediamenti legali per la legge israeliana, contrariamente a quanto sostiene Giorgio, non sono in costruzione. Vengono ampliati insediamenti già esistenti, per far fronte all'incremento demografico naturale. L'enfasi sugli insediamenti e la demonizzazione dei coloni, presentati come persecutori dei palestinesi, ignorando completamente le vittime del terrorismo che si contano tra le loro file, non servono dunque a segnalare un problema reale, ma ad attaccare la lotta al terrorismo e a difendere quest'ultimo. La linea politica del quotidiano comunista.
Ecco l'articolo:
Regna l'abituale confusione a Bab Zawiye. Ambulanti che urlano, acquirenti scettici, taxi che fanno lo slalom tra le bancarelle. Le scolaresche sciamano per le strade intasate di automobili. A pochi metri dal quartiere palestinese c'è l'altra Hebron, la zona H2, controllata dall'esercito israeliano, per la quale si aggirano solo sparuti gruppi di coloni ebrei e pattuglie della polizia. I palestinesi che abitano lì si comportano come topi: rintanati in casa, fanno di tutto per evitare i coloni, che nelle ultime settimane sono più aggressivi del solito. I settler sono infuriati con il governo e con l'esercito israeliano, ma sfogano loro rabbia soprattutto contro i palestinesi. Gli ultimi, gravi scontri si sono avuti qualche notte fa, non lontano dall'insediamento ebraico di Kiryat Arba, quando decine di estremisti si sono scatenati lanciando sassi contro le case palestinesi, profanando decine di tombe in un cimitero musulmano e fracassando i vetri di un'ottantina di auto arabe. Un raid punitivo contro i palestinesi, seguito alla demolizione da parte dei soldati di un «avamposto colonico», illegale non solo per la legge internazionale ma anche per le autorità di occupazione. «Chiedere aiuto alla polizia palestinese è inutile - spiega sconsolato Fares Sweiki, che abita lungo la strada che collega Kiryat Arba e Hebron - : gli agenti non possono avvicinarsi agli insediamenti, e poi sanno bene che se provassero a difenderci si troverebbero sotto il fuoco dei soldati e dei coloni israeliani». Parole che fanno riflettere sulla condizione di Hebron, in modo particolare della sua zona H1 - l'85% della città - ufficialmente sotto il controllo dell'Anp, ma dove in realtà a dettar legge è sempre l'esercito israeliano. Dal 25 ottobre ad accrescere l'amarezza della popolazione contribuisce il dispiegamento di 550 agenti dei reparti speciali delle forze fedeli al presidente Abu Mazen. Uomini addestrati in Giordania con fondi statunitensi ed europei e che l'Anp, dopo aver ricevuto il via libera di Israele, ha inviato a Hebron per riportare «legge e ordine» nelle strade. Ma in città sanno bene qual è il vero compito di questi reparti scelti: fare la guerra ad Hamas, che ha già preso il controllo di Gaza un anno fa e gode di molti consensi anche in Cisgiordania. «Proteggono gli israeliani, non noi: li hanno inviati qui non per difenderci dai coloni ma per aiutare Israele», protesta Musa, un disoccupato. Khaled, commerciante e simpatizzante di Fatah, il partito di Abu Mazen, è deluso: «Hamas non mi piace, ma il problema di Hebron non sono gli islamisti ma l'occupazione e i coloni». I leader locali del movimento islamico preferiscono non incontrare la stampa, specie quella internazionale: sanno di essere nel mirino della forza speciale dell'Anp e non si espongono. Militanti e simpatizzanti di Hamas invece sono meno timorosi. «Il governo di Ramallah (l'Anp di Abu Mazen, ndr) ci fa la guerra mentre dovrebbe lottare contro coloro che occupano la nostra terra», dice Mahmoud J., membro di una delle famiglie più in vista di Hebron. Un suo amico, Mustafa M., non è di Hamas ma punta anche lui l'indice contro l'Anp. «A Ramallah - dice con tono minaccioso - pensano solo a spartirsi i soldi che arrivano dall'estero mentre a Hebron tante famiglie muoiono di fame. Hamas invece aiuta la popolazione e sono certo che non resterà a guardare le azioni del mukhabarat (il servizio di sicurezza)». Un avvertimento che ha trovato conferma qualche giorno fa, quando Ismail Radwan, uno dei massimi dirigenti di Hamas, da Gaza ha fatto sapere che se in Cisgiordania continueranno le campagne di arresti di attivisti e simpatizzanti della sua organizzazione, il dialogo con Fatah non vedrà mai la luce. «Non è possibile parlare di riconciliazione mentre ogni notte tanti dei nostri vengono arrestati dalle forze dell'Anp e di Israele», ha protestato, dimenticando però che a Gaza la tanfisiya, la forza speciale di Hamas, tiene sotto costante pressione quelli di Fatah e spesso proibisce la distribuzione dei quotidiani di Ramallah. «Hebron è una roccaforte di Hamas». I giornali di mezzo mondo di recente si sono affannati a spiegare che Abu Mazen non avrebbe altra scelta che fare la guerra al movimento islamico. Una lettura della situazione sul terreno che tralascia il dato più scottante: la presenza di 500 coloni israeliani che di fatto tengono in scacco il futuro di questa città spaccata in due parti. Di fatto l'invio dei 550 agenti speciali dell'Anp a Hebron conferma che l'attuazione della Road Map, da tutti considerata morta, è in atto da mesi. Ma solo da parte palestinese. La prima fase di quel presunto «percorso di pace» tracciato dagli americani ma completato con le condizioni poste dall'ex primo ministro israeliano Ariel Sharon, prevede da parte dell'Anp la cosiddetta «lotta alle infrastrutture del terrorismo», cioè Hamas, e la parallela cessazione delle attività di insediamento in Cisgiordania da parte di Israele che, al contrario, prosegue senza sosta. Senza avere alcuna certezza sull'indipendenza palestinese, apparentemente non scosso dal fallimento di Annapolis e da un anno di negoziati di pace senza esiti, Abu Mazen e il suo entourage, a bassa voce, hanno ordinato ai servizi di sicurezza di coordinarsi con l'esercito israeliano nella lotta al «nemico comune», Hamas, come ha rivelato un articolo pubblicato nelle scorse settimane dal quotidiano Yediot Ahronot, mai smentito dall'Anp. D'altronde il coordinamento è evidente sul terreno. Proprio a Hebron, il mese scorso, il capo dell'intelligence palestinese Aqel a-Saadi ha annunciato la scoperta di un tunnel e di un presunto deposito di armi di Hamas e l'arresto di militanti islamici che, a suo dire, si preparavano «a scardinare la sicurezza e la stabilità» in Cisgiordania. Il tunnel è stato distrutto dagli israeliani allertati dall'Anp e nei giorni successivi le unità speciali palestinesi hanno effettuato decine di arresti definiti dal loro comandante, Alaa al Saifi, «un'operazione contro i malavitosi». Il generale Keith Dayton, che da circa due anni, per conto degli Stati uniti (e indirettamente di Israele), sta supervisionando l'addestramento dei reparti speciali dell'Anp in corso in Giordania e nel centro di intelligence di Gerico, non sente il bisogno di mascherare queste manovre. Confermando, in un'intervista al quotidiano al Ayyam di Ramallah, di essere in costante contatto con il comandante in Cisgiordania dell'esercito israeliano, Dayton ha spiegato che «la sicurezza è il primo passo, economia e stabilità non possono essere raggiunte in un clima in cui la gente ignora il potere dell'Anp». Due giorni prima, il ben informato quotidiano al Quds al Arabi di Londra aveva riferito che 700 agenti palestinesi del II Battaglione vengono attualmente addestrati nel Muwaqqar Camp, in Giordania ma finanziati interamente dagli Usa, assieme ai reparti speciali iracheni. Nei Territori occupati sono ormai in tanti a scommettere che presto si disputerà il secondo, forse decisivo, round della guerra civile palestinese.
L'articolo di Giorgio è affiancato da un'intervista di Michelangelo Cocco all'analista politico Khalil Shaheen, del quotidiano palestinese Al-Ayyam. Shaheen sostiene la riconciliazione tra Fatah e Hamas, attraverso l'ingresso di quest'ultima nell'Olp. Non pone condizioni circa il riconoscimento di Israele e degli accordi di Oslo e la rinuncia al terrorismo. Sostiene poi che il fallimento dei finanziamenti all'Autorità palestinese dipenderebbe dall'"occupazione" israeliana. Dall'occupazione, non dalla corruzione e dalle scelte di guerra dei capi palestinesi... Ciò che inquieta è che uno come Shaheen fosse nei giorni scorsi in Italia per diffondere la sua propaganda, nell'ambito di un progetto finanziato dall'Unione europea e promosso tra gli altri enti dall'italiano Centro italiano per la pace in Medio Oriente (Cipmo). Ecco il testo dell'intervista:
Analista politico del quotidiano palestinese Al-Ayyam, Khalil Shaheen giudica ancora molto distanti tra loro Hamas e Fatah, i due partiti palestinesi che con la loro divisione stanno contribuendo a rendere sempre più isolato il movimento di liberazione nazionale. Della possibilità di un accordo frutto del negoziato in corso al Cairo o, al contrario, che tra gli islamisti e gli orfani di Yasser Arafat si arrivi a un nuovo confronto armato, abbiamo discusso con Shaheen, nei giorni scorsi in Italia per partecipare a «More than words: media coverage of the israeli - palestinian conflict», progetto triennale finanziato dall'Unione europea, promosso dai due centri Keshev (The Center for Protection of Democracy in Israel) e Miftah (The Palestinian Initiative fot the Promotion of global Dialogue and Democracy), in partnership con il Centro italiano per la pace in Medio Oriente (Cipmo), sostenuto dall'Assessorato alla Pace e Cooperazione Internazionale della Provincia di Milano. Il voto presidenziale - che Abu Mazen vuole posticipare di un anno - sembra destinato a diventare il prossimo casus belli tra Fatah è Hamas. Non vede spazio per un compromesso? Il motivo principale dello scontro resta la mancanza di un accordo su quanto potere avrà ognuno di questi due partiti nell'Autorità palestinese (Anp) e nell'Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp). Le singole questioni, come quella del voto presidenziale, vengono usate strumentalmente dalle parti, per rafforzare le loro posizioni nell'ambito dei colloqui in corso al Cairo con la mediazione egiziana. La situazione si potrà sbloccare solo se si raggiungerà un'intesa per ricostruire le organizzazioni della sicurezza e quelle del movimento di liberazione palestinese includendovi tutte le fazioni, anche il movimento islamico. Se ne sta già discutendo o si tratta di semplici ipotesi? Se i palestinesi non si metteranno d'accordo per includere anche il movimento islamico nelle loro organizzazioni, la strada alternativa potrebbe essere quella di un accordo parziale che porti alla formazione di una sorta di Governo di unità nazionale - tenendo aperto il dialogo sulle altre questioni - che mantenga però, di fatto, due «autorità» palestinesi distinte: una in Cisgiordania controllata da Fatah, l'altra a Gaza sotto Hamas. La distanza tra le parti è ancora ampia e questa seconda soluzione sembra in questo momento la più probabile. Quali sono gli ostacoli concreti al raggiungimento di un accordo complessivo? Fatah, che ha dominato l'Olp e il movimento di liberazione nazionale negli ultimi decenni, non è pronto a dividere il potere con nessuno. D'altra parte Hamas sta utilizzando la «conquista di Gaza» per accrescere la sua influenza in Cisgiordania e tra le comunità palestinesi all'estero. Insomma entrambe le parti non hanno ancora capito che la prima cosa da fare è accordarsi su un programma politico. Hebron, Jenin, Nablus: la polizia dell'Anp si addestra con l'appoggio americano e israeliano. Non crede che - senza uno stato - questi agenti serviranno solo a reprimere l'opposizione a Fatah? Penso che la domanda da porsi sia: esiste la possibilità di sviluppare un'economia e delle forze di sicurezza mentre permane l'occupazione israeliana? Gli esperimenti condotti finora - inclusi gli aiuti da parte dell'Unione europea - ci dicono di no. In molti palestinesi ormai è diffusa la convinzione che i finanziamenti per ricostruire le istituzioni economiche, politiche e le forze di sicurezza palestinesi, servano soltanto a mantenere l'occupazione. Il cosiddetto «processo di pace» è fermo. Che sviluppi prevede per il futuro prossimo? Stiamo aspettando la nuova amministrazione statunitense, anche gli israeliani andranno al voto (il 10 febbraio, ndr) e gli stessi palestinesi potrebbero andare a elezioni presidenziali e parlamentari. In quest'atmosfera elettorale tutte le parti sono in competizione. Per questo nei prossimi mesi non prevedo alcun passo avanti nel processo di pace.
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