Cattivi consigli a Barack Obama. In Afghanistan non c'è più nulla da fare, dall'Iraq gli americani, che hanno liberato e stabilizzato il paese, devono andarsene il prima possibile.
Su REPUBBLICA del 5 novembre 2008:
Malgrado le immagini dei candidati mostrate alla tv per mesi, Mariam delle elezioni americane non sapeva nulla. E suo figlio, forse confuso dalle primarie, credeva McCain e Obama uno il vice dell´altro. I più, tra gli afgani a cui ho chiesto, erano incantati dai raduni oceanici attorno ai contendenti, dalla pioggia di striscioline di carta, dai cartelli e dall´entusiasmo del pubblico. Tutto si è svolto nell´ordine, senza violenza. «Inimmaginabile a Kabul», dicevano pensando alle elezioni presidenziali afgane del 2009.
Appena ho pronunciato la parola "Stati Uniti", Jalal, originario di Helmand, la provincia ogni giorno sotto le bombe straniere, mi ha guardato disgustato. Non ho insistito per sapere quanto pensasse che contino gli americani qui. «Tantissimo», ha risposto invece sicuro Farid Khan, «anche se l´opposizione dilaga, sempre più forte. Osannati o detestati, restano i più temuti e generosi». Lui non li ama. Sono in tanti a pensare che è anche colpa loro se l´Afghanistan ha perso il treno della pace e della ricostruzione. «Lo sforzo andava fatto nel 2002. Allora il paese era pronto, tutti li avrebbero seguiti, cancellando anni di anarchia. Invece hanno rivolto la loro attenzione all´Iraq. Ora è tardi». Nessun nuovo presidente potrà rimediare agli errori.
( lavora per il Progetto ortopedico del Comitato internazionale della Croce Rossa in Afghanistan)
Per ironia, il mio blog da Bagdad si chiamava "Dov´è Raed"? Quasi un presentimento. Infatti come cinque milioni di iracheni, sono dovuto fuggire. Mi sono ritrovato a Washington, a una fermata di metro dalla Casa Bianca, dal Pentagono e dai vari bunker del pensiero dove il futuro del mio Paese è stato deciso per gran parte della mia vita. Non mi sono ancora abituato alla loro vista. Né a tutti i falafel che mi offrono gli amici, affettuosi, senza sapere che preferisco il fast food. La mia famiglia è implosa, per via della guerra: i genitori in Giordania, mio fratello Najed in Egitto, l´altro, Khalid, negli Emirati. Non posso dirmi fortunato d´essere in America: fortunato è chi può tornare a casa propria. Però qui ho il privilegio di far sentire la voce di un "altro Iraq": di chi preferirebbe finire l´occupazione attraverso il dialogo con il pubblico e i legislatori americani. Lo faccio attraverso una ong, l´American Friends Service Committee.
Ho tifato per i candidati indipendenti alla Casa Bianca. Nè Obama né McCain mi entusiasmano: vogliono entrambi lasciare basi militari Usa in Iraq, come in Germania e in Giappone. Ma gli iracheni non riusciranno ad avviare il processo di riconciliazione e di ricostruzione con una forza di occupazione straniera che prenda le parti di una fazione.
(Jarrar è stato reso celebre dal blog "Where is Raed?", nei primi anni dell´invasione. Ora scrive su http://raedinthemiddle.blogspot.com)
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