Il fantasma esce di scena Philip Roth
Traduzione di Vincenzo Mantovani
Einaudi Euro 19,00
Il test è infallibile. A metà serata, quando si decide di ritirarsi a leggere, può capitare per un attimo di chiedersi quale sia il libro che si è iniziato. E come affiora il titolo, sappiamo subito se si tratta di affrontare una salita o una discesa. Questa settimana, mi è successo addirittura di pensare durante il giorno al momento in cui avrei potuto riaprire “Il fantasma esce di scena” di Philip Roth. Un capolavoro? Un’abile opera di intrattenimento? Un ennesimo Livre à scandale? Non so a chi spetti l’ardua sentenza. Di sicuro è una storia che “prende”, e, visto che siamo a una svolta nella carriera di Roth, sarà il caso di chiedersi il perché.
Protagonista il suo alter ego di sempre, Nathan Zuckerman. Un personaggio che è un ghost writer, cioè quella parte di sé a cui Roth ha sempre affidato il compito di parlare della propria vita e dei propri pensieri, concedendosi però il lusso di prendere le distanze da tutto e di prenderci anche un po’ in giro. Il grande tema della sua narrativa, infatti, più che il teatro del mondo è l’esplorazione del proprio io. E tuttavia Roth non è uno scrittore di quelli che chiamano “confessional”. Non cerca la complicità del lettore. Parla continuamente di sé, ma scompare dietro la maschera di infiniti personaggi. E’ uno, nessuno e centomila. Chi sia Roth in realtà – a parte il fatto che non sarebbe affar nostro – lo si può capire dalle sue ormai rare interviste. Ma noi, a nostra volta, siamo liberi di non credergli. Ci bastano i suoi libri.
Nell’ultimo romanzo, “exit ghost”, è una didascalia teatrale. Si spengono le luci, e nell’aria – cioè nella memoria dello spettatore – rimane solo come una eco, la labile traccia di ciò che hanno detto gli attori: quello che Borges, parlando dell’opera di Shakespeare, ebbe a definire come “un sogno sognato da nessuno”.
Zuckerman, che abita da undici anni in completo isolamento nel New England – e, significativamente, poco lontano dai luoghi in cui vissero per un po’ Hawthorne e Melville -, torna a New York. Da tempo non legge i giornali, non guarda la tv, non sa più come vivano gli altri: chi siano i personaggi alla moda e che cosa abbia da dirsi la gente che sta tutto il giorno attaccata al cellulare.
Zuckerman è quel che resta dell’uomo che è stato. Sessualmente impotente dopo l’operazione alla prostata, è anche costretto a indossare giorno e notte un pannolone per assorbire lo sgocciolamento dell’urina. In città torna – il libro è ambientato nel 2004 – perché ha sentito che al Mount Sinai Hospital c’è un urologo che potrebbe con delle iniezioni di collagene rimediare almeno in parte al suo imbarazzante problema. Ma in pochi giorni accade l’incredibile. E tutto abbastanza per caso.
Zuckerman si lascia afferrare dalla vita. Si innamora di una trentenne e torna a essere lo scrittore combattivo che è stato da giovane. Rivede la donna, Amy Bellette, ormai anziana e sconciata da un cancro al cervello, che è stata la compagna di E.I. Lonoff – uno scrittore (ovviamente inventato, ma attenzione a quel cognome!) -, la quale, nel 1956, lo stesso Zuckerman, nel corso di una visita a casa del venerato maestro, aveva immaginato che fosse Anna Frank, sopravvissuta alla Shoah.
Inoltre – e questo è il testamento del fantasma – cerca in tutti i modi di impedire a un giovane rampante di scrivere un libro, con rivelazioni “scandalose”, sulla vita di Lonoff. Non tanto per ipocrisia, ma perché Nathan Zuckerman crede fermamente che non è affidandosi allo stile “diretto” dei biografi, e tanto meno a quello dei commentatori, che si può richiamare l’attenzione su di un romanziere, il più bravo di tutti, ingiustamente dimenticato.
La lunga lettera che Amy Bellette scrive al “New York Times”, convinta, a causa della malattia, che sia stato il defunto Lonoff a dettargliela, è un capolavoro di critica letteraria che, invece, mi sa tanto sia stato suggerito a Philip Roth dal fantasma del grandissimo Nathaniel Hawthorne in occasione del centenario della propria nascita (1804-2004). Leggere per toccare con mano.
Luigi Sampietro
Il Sole 24 Ore