La ragazza scomparsa Yoram Kaniuk
Traduzione di Dalia Padoa
Cargo Euro 15,00
Yoram Kaniuk è nato nel 1930. E’ dunque più vecchio di A.B. Yehoshua di sei anni, di Amos Oz di nove, e rispetto a David Grossman, 1954, rappresenta un’altra generazione. Benché in Israele sia accomunato a questi scrittori per importanza e rappresentatività, è da noi meno conosciuto e da loro appare assai diverso. Diversa intanto è la sua storia: ha fatto a tempo a entrare nel Palmach, le compagnie d’assalto dell’esercito clandestino ebraico prima alleato agli inglesi poi in lotta contro di loro per l’indipendenza. Ma diversa soprattutto appare la cifra intellettuale ed emotiva di Kaniuk rispetto al pathos che caratterizza i suoi colleghi, diverso lo sguardo sulla società israeliana, sebbene pubblico e privato, storia personale e storia politica anche nei suoi romanzi vadano a formare un unico indistricabile intreccio. Kaniuk, da ex combattente per la creazione dello stato, può permettersi uno sguardo non solo critico ma addirittura crudele, oppure ironico, o letteralmente dissacrante, sulla difficile realtà del suo Paese e soprattutto su uno dei temi fondanti e dei miti fondatori della sua vita quotidiana: il nodo dell’identità.
E’ appunto l’identità il problema principale, o piuttosto il problema dei problemi, della protagonista del suo ultimo romanzo, “La ragazza scomparsa” (tradotto con buon ritmo e qualche asperità da Dalia Padoa per le interessanti edizioni napoletane Cargo). La ragazza che ci racconta la sua storia senza mai rivelarci il suo nome non è in cerca della propria identità come tutte le sue coetanee, è invece in cerca del contrario. La sua identità è eccessiva, deborda ed esubera sotto il peso della storia. Suo padre è stato un combattente eroico, senza paura ma non privo di macchia come spesso i combattenti eroici. Sua madre invece è una scampata: al lager, ma soprattutto a un fato di perdita che continua però a perseguitarla. Tutto ciò che ha intorno è troppo carico di identità, i vivi con la loro memoria e la loro retorica, e i morti, troppo attraenti, troppo indimenticabili. A lei, che ama il deserto, per sopravvivere a tutto questo eccesso non resta che desertificarsi, cioè perderla quella debordante identità che gli altri non smettono di trasmetterle, e preparare puntigliosamente la sua scomparsa: non vuole morire, ma esser morta al mondo, diventare un’altra, irriconoscibile, irraggiungibile.
Ma Kaniuk, se parte in quarta con ricordi insanguinati di soldati troppo furenti e troppo zelanti, vuole mantenere le distanze ed evitare la commozione, parente stretta della retorica e della superstizione identitaria. L’eroina che si racconta diventa dunque la protagonista- nello stesso tempo vittima e killer – di un thriller tragicomico in cui confluiscono gli ingredienti più disparati: ministri corrotti, parrucchieri di cadaveri, poliziotti maldestri e fannulloni, beduini terrorizzati, agenti segreti pentiti e innamorati, tutti condannati a non fare bella figura. E se l’eroina è spietata – di fronte alle lacrime della madre e allo smarrimento del padre e di fronte all’opinione pubblica che la crede l’ennesima martire della ferocia araba – non meno spietato è lo scrittore nel descrivere quel singolare melting pot sentimentale e materiale che è la sua nazione. Questo libro, ci dice lui stesso dopo le parole conclusive della storia, lo ha scritto “in maniera intermittente” dal 1995 al 2005: più che la storia della ragazza che organizza la propria scomparsa è lo specchio di uno sguardo che si è a lungo esercitato a comprendere e valutare. Anche se appare evidente dalla tensione del suo racconto che se Kaniuk è severo e intransigente nei confronti di Israele e dei suoi miti e vizi, lo è per quella forma di malinconia critica che nasce dalla passione e non dal disincanto.
Elisabetta Rasy
Il Sole 24 Ore