Mentre Ayaan Hirsi Ali, sul CORRIERE della SERA del 30 ottobre 2008, chiede alla comunità internazionale di fermare chi pratica la lapidazione, Igor Man(zella), sulla STAMPA del 31 ottobre commenta la lapidazione Aisha Ibraim Dhuhulow in Somalia preoccupandosi anzitutto di introdurre una dubbia distinzione tra islam e sharia, per concludere... affidandosi ad Allah.
Non è uno scherzo, i nostri lettori possono verificare leggendo il testo dell'articolo che riportiamo qui sotto:
Aisha Ibraim Dhuhulow è stata lapidata perché «colpevole di fornicazione». Aveva ventitre anni, fino all’ultimo ha gridato la sua innocenza. È accaduto a Chisimaio, porto bananiero a Sud-Ovest di Mogadiscio, l’antica terra dei Bagiuni. Tradizionale velo verde sul capo, il volto coperto da un panno nero, Aisha è stata ficcata sino al collo in una buca per poi essere lapidata. «Sdegno» ha espresso L’Osservatore Romano, denunciando il supplizio di Chisimaio, ma già da ieri Aisha è passata nelle «brevi» mentre, pragmaticamente c’è chi sostiene che il dialogo cristiani-islamici va continuato.
Quelli che hanno mandato a morte la giovine adultera sono i miliziani delle deposte «Corti islamiche», battute col concorso dell’esercito etiopico. Codesti miliziani sono la versione somala dei talebani: ignoranti e dunque facili da manipolare, essi hanno fatto della Somalia, di Mogadiscio in particolare, una sorta di ascesso di fissazione del terrorismo islamista. E quella che fu una torrida ma cordiale città africana altro non sarebbe, oggi, se non la centrale periferica di al Qaeda.
Prima che il mondo democratico abbandonasse la Somalia al suo orrendo destino, il Vecchio Cronista fu più volte in quel Paese, sotto la Croce del Sud. A sera il suono lungo delle campane, la voce del muezzin, il sorriso delle ragazze altere nelle loro fute variopinte, erano una sorta di benefica flebo intrisa di speranza. Siad Barre, il dittatore detto «bocca larga», lui credeva nel «dialogo» cristiani-musulmani.
Non sono poche le consonanze fra cristianesimo e islàm, molte sure del Corano riecheggiano gli Atti degli Apostoli, le cronache degli Evangelisti. Di più: il Corano esalta la verginità feconda di Maria, riconosce in Gesù il santo profeta figlio di Dio. Però qui cala la prima mannaia. Eccola nelle parole di Raimondo Lullo evangelizzatore cristocentrico del XIII secolo: «I saracini credono che nostro Signore Gesù è figlio di Dio ma non credono ch’egli sia Dio». Per il cristiano Dio si è rivelato allorché il tempo fu compiuto manifestandosi nella persona di Cristo Gesù redentore dell’umanità. Per l’islàm Dio rivela la sua parola (al Quran) ma non se stesso. Rimane inaccessibile. L’unica mediazione fra Dio e l’uomo è il Corano. Maometto è solo un Profeta. Santo ma solamente uomo. Ed ecco la seconda mannaia: la sharia. È quell’insieme di regole e disposizioni di legge in forza delle quali i vari califfi venuti dopo Maometto hanno affermato il proprio potere. La sharia è un corpus legislativo che istruisce l’esercizio della quotidianità. Prescrive, fra l’altro, il taglio della mano per il ladro, la lapidazione per gli adulteri. Non pochi ulema ammettono il dogmatico anacronismo della sharia ma poiché essa attinge alla fonte divina (la Sunna, gli hadith: i detti del Profeta) è intoccabile. Certo, dicono gli ulema «modernisti», talune disposizioni andrebbero abrogate. Tuttavia occorrerebbero testi idonei, cioè appartenenti al Corano, alla Sunna. Ma poiché il Profeta è morto «sia la Rivelazione sia la Sunna sono cessate: sicché la sharia è immodificabile».
Non confonderemo mai la sharia con l’islàm che predica la tolleranza. Attribuire a Maometto certe leggi crudeli, fuori del tempo presente come la lapidazione di Aisha sarebbe lo stesso che addossare a Gesù i misfatti della (santa) inquisizione. Ma la sharia attribuisce all’islàm valore di (unica) verità oggettiva. Che fare, dunque? Allah alam, Dio solo lo sa.
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