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Il rogo nel porto Boris Pahor
A cura di Anna Raffetto
Zandonai Euro 18,00
Quando uscì sugli schermi “Schindler’s list, un giornale tedesco “osò” criticare le scene del Lager. Il regista era Spielberg, che aveva girato anche Jurassic Park. E il giornale tedesco, per dire che Schindler risentiva della voglia di Spielberg di stupire con le sue abilità inventive, titolò la stroncatura “Jurassic Holocaust”. Se fossi tedesco, non mi sarei permesso un’ironia del genere, su un regista ebreo che racconta all’umanità il torto immane che i tedeschi hanno fatto al suo popolo. Se avessi avuto qualche riserva, non l’avrei incentrata lì, sul Lager, come per dire: “Lui non sa cos’era, noi sì”.
Io sono italiano, e ho appena finito di leggere un libro inobliabile, contro gli italiani fascisti che a Trieste e in Isria han fatto cose immonde, che noi oggi, loro discendenti, non sappiamo più. Questo libro scritto da un autore sloveno vivente a Trieste, Boris Pahor (oggi ha 95 anni), che racconta pescando nella sua memoria personale, ha qualche sbavatura nell’impianto, anche i lettori sprovveduti se ne accorgono. Scorrendo in Internet le reazioni dei lettori all’opera che resta il suo capolavoro, uno dei libri fondamentali del secolo scorso (Necropoli; prima edizione 1997, adesso anche in traduzione italiana, da Fazi), si trovano giudizi di assoluto entusiasmo (“Tutti devono leggerlo, voto 5 su 5”) e riserve pesanti (“Pieno di ripetizioni, va avanti e indietro, ci si perde, voto 2 su 5”).
Prima che le valutazioni contraddittorie corrano sul libro che esce in questi giorni, Il rogo nel porto, dico subito che le riserve sulla struttura vengono da una visione letteraria, nel senso deteriore del termine. Libri come questo “disarmano” la critica. Chi li legge deve lasciare da parte la letteratura. E non importa che Pahor sia da più anni candidato al Nobel per la Letteratura. E’ chiaro che qui, come in Necropoli, non si preoccupa di fare un libro unitario, e disporre i contenuti con ordine. Lui soffre di un ingorgo di memorie, e sono memorie lancinanti. Le butta fuori come vengono. Sono terribili accuse per noi italiani.
Il libro è diviso in quattro parti. La prima (la più memorabile) è ambientata a Trieste, quando si instaura il fascismo. L’incendio della Casa della Cultura slovena è visto con gli occhi di un ragazzino, che non capisce perché quegli uomini neri col fez ballano cantando “Eja eja, alalà” intorno all’edificio in fiamme, e perché nei giorni seguenti dove si parla sloveno irrompono uomini neri armati di bastone e picchiano a destra e a manca, e perché nelle scuole all’improvviso i bambini sloveni devono parlare e scrivere in italiano, che non sanno.
Quelli che non sanno l’italiano, vengono retrocessi di classe. E così ogni bambino, per esprimersi, deve “tradursi” in una lingua che non sa. Il bambino protagonista ha un’intuizione profonda: dice che prima si andava a scuola per imparare, adesso ci si va per penitenza. La penitenza è molto vicina alla colpa, in questo caso la colpa di esser nati sloveni.
C’è il racconto di un cugino, Ciril, garzone di un fornaio, che si spara in testa perché il suo capo lo costringeva a rubar farina: ma a monte di questo sopruso individuale ci sta il grande sopruso generale, di un popolo costretto a rinnegare la propria identità, e questo sopruso generale vien fuori nelle vite individuali mascherato in mille forme. Bisogna averlo patito per riconoscerlo.
E’ questa vena sotterranea, invisibile in superficie, che fa spesso da collegamento tra i racconti. Anche con i racconti dell’internamento nei lager tedeschi (l’autore ha peregrinato tra Dachau, Natzweiler, Dora Mittelbau, Bergen Belsen). Qui racconta la fine del Lager e l’uscita tra gli uomini liberi, nei quali la casacca a righe degli ex-detenuti suscita spavento, un istinto di difesa.
Forse i racconti finali, la vita (i ladri, le donne, gli americani) nella Trieste liberata, sono un’altra cosa, e potevano far parte di un altro libro. Ma cerchiamo di non cadere nella colossale gaffe dei tedeschi col “Jurassic Holocaust”: il libro è una testimonianza contro di noi e noi non possiamo né ignorarla né dimenticarla.
Ferdinando Camon
Tuttolibri – La Stampa
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