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Giorgia Greco
Libri & Recensioni
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David Grossman A un cerbiatto somiglia il mio amore 27/10/2008

A un cerbiatto somiglia il mio amore        

David Grossman

 Traduzione di Alessandra Shomroni

Mondadori                                           Euro 22

“Ofer sta bene, tagliò corto Orah…Almeno fino a ieri sera stava bene, confermò ad Avram. L’ultimo messaggio è delle undici e un quarto. Lanciò un’occhiata all’orologio. Avram controllò la posizione del sole”. La storia è quasi finita, o forse appena cominciata. Il lettore ha alle spalle pressoché ottocento pagine, Orah e Avram si diranno ancora ben poco, seduti lì su quella pietra gelida. E Ofer? Non sarà più “solo parole” per nessuno.

C’è un daimon, nella narrativa israeliana, sul quale prima o poi varrà la pena riflettere: lo spazio autobiografico. Non nel senso di puro diario, di vita che vale la pena di essere raccontata tal qual è: essa diventa infatti materia scritta soltanto attraverso una sorta di trasfigurazione artistica in cui l’esperienza personale costituisce il perno della scrittura, ne traccia l’ispirazione, ma anche il non detto.

Disegna sulla pagina parole e ancor più silenzi. Con “Una storia di amore e di tenebra” Amos Oz ha dato una svolta alla propria esperienza di scrittore ma anche al suo universo letterario: tutto è successo quando ha capito che poteva narrare, e prima ancora dire, del suicidio di sua madre, cinquant’anni prima. Aharon Appelfeld ha tramutato la memoria vissuta nell’Europa della Shoah in sostanza di fiction che continuamente si rinnova.

E ora, a questa poetica che espone l’io narrante con una sincerità rigorosa, impudica, dà voce David Grossman nel suo ultimo romanzo: “A un cerbiatto somiglia il mio amore”. Il titolo originale ebraico suona invece così: “Una donna che scappa da una notizia” ed è difficile comprendere che cosa abbia condotto l’editore italiano a una declinazione tanto diversa – un versetto del Cantico che a un certo punto fa capolino nel libro.

Orah è una madre. Ha due figli e un ex marito. Il primo figlio, che si chiama Adam, è lontano insieme a suo padre. Ofer invece è suo, tutto suo. Sta per finire il servizio militare, poi viene richiamato per un’operazione bellica delicata e rischiosa. Orah decide che non ce la fa, ad aspettarlo così. Parte per andare lontano, ma Israele è un paese piccolo dove le lontananze sono quasi ridicole. Allora decide di spingersi più in là non nello spazio, bensì nel tempo. Perché Ofer è figlio suo e di Ilan, il marito da cui è separata da un anno circa. Ma è anche figlio di uno strano, doloroso e irrinunciabile triangolo di amore e di vita. Fra lei, Ilan e Avram: “ciò che era successo lassù, in quelle notti…era troppo prezioso e raro per essere riferito a estranei”.

E invece a noi lettori lo racconta.

Tutto comincia nel lontano 1967, durante la Guerra dei Sei Giorni, in un reparto d’isolamento di un ospedale a Gerusalemme. Prosegue con la Guerra del Kippur, il fronte, il fuoco, l’orrore, le carceri egiziane. Grossman descrive la guerra – qualunque essa sia – in un modo mirabile. Entra con questi ricordi dentro la coscienza più profonda di tutto un paese, il suo. Dà una misura personale ai traumi collettivi: la paura d’essere assediati, isolati, stretti in una morsa mortale. Ofer, che nel libro non parla e non vive se non attraverso il racconto che sua madre Orah affida ad Avram, è lo specchio di tutto questo. Un ragazzo che invece di tornare da sua madre che lo aspetta con i due zaini pronti per un bel trekking insieme, è andato a fare la guerra. Forse tornerà.

Per non morire d’ansia aspettando il suo ritorno, Orah rapisce Avram. Ha per complice Sami, il fidato autista arabo che è fra i personaggi più efficaci di tutto il romanzo, burbero e timido, convincente nei suoi affetti e negli scatti di rabbia. Ben presto Sami abbandona i due in piena campagna, là dove inizia il loro cammino. Orah è un fiume di parole, Avram centellina i gesti e i ricordi, persino del proprio presente è avaro.

Alla fine, Grossman spiega che il tessuto del romanzo esisteva ancora prima di quel 12 agosto del 2006 che gli ha portato via il secondogenito Uri. “Ciò che era cambiato, perlopiù, era la cassa di risonanza della realtà”. Ne è uscito un romanzo difficile, aspro, fluviale, a volte urtante nel suo realismo, a volte dolcissimo e trasognato. Una trasfigurazione dell’amor materno in voce e strazio di padre, che sta dentro ogni pagina e ogni riga, nessuna esclusa.

Elena Loewenthal

Tuttolibri – La Stampa


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