Sul FOGLIO di oggi, 25/10/2008, a pag. VI-VII la traduzione di un articolo di Joshua Muravchik da COMMENTARY, di particolare interesse per quanto riguarda la politica estera americana. Segue una analisi di Christian Rocca su Barack Obama, che differisce dai ritratti che leggiamo abitualmente sul candidato alla Casa Bianca.
JOSHUA MURAVCHIK è un analista dell’American Enterprise Institute dove conduce ricerche su politica mediorientale, democrazia e storia del socialismo. E’ un esponente del movimento neoconservatore. Tra il 1968 e il 1973 è stato il presidente nazionale della Lega dei giovani socialisti. Scrive per Commentary, World Affairs, Journal of Democracy e Weekly Standard. Sta per pubblicare un libro sui dissidenti in medio oriente.
Nell’interminabile fiume di attacchi contro la politica estera dell’Amministrazione Bush, alcune delle critiche più feroci sono state rivolte alla presunta noncuranza del presidente per gli strumenti pacifici della diplomazia. Bush è stato accusato, per esempio, di non aver voluto dialogare direttamente con l’Iran e con la Corea del nord, di avere cercato di “isolare” la Siria e di non essersi impegnato a fondo nel processo di pace israelo-palestinese. L’atmosfera generale è stata perfettamente colta l’anno scorso in una domanda posta dal celebre giornalista televisivo Anderson Cooper a Barack Obama: “Nello spirito di una leadership coraggiosa sarebbe pronto a incontrare nel primo anno della sua Amministrazione i leader dell’Iran, della Siria, del Venezuela, di Cuba e della Corea del nord, per affrontare i problemi che dividono questi paesi dal nostro? Obama non ha esitato. ‘Certamente’, ha risposto. ‘E il motivo è questo: l’idea che non dialogare con un certo paese significhi punirlo – idea che è stata il principio diplomatico guida di quest’Amministrazione – è del tutto ridicola’”. Come al solito, Obama ha poi fornito una lunga serie di precisazioni e specificazioni su questa sua dichiarazione. Tuttavia, al di là delle manovre elettorali, il candidato democratico alla Casa Bianca è rimasto fermo sulla propria posizione, che sembra considerare di una verità talmente ovvia da essere sostanzialmente inconfutabile. Ma è proprio così? Quanto è utile la diplomazia? E’ davvero in grado di “colmare il divario” che ci separa dai nostri nemici scoprendo insospettati punti comuni e trasformando così la natura dei nostri rapporti con loro? Ha mai realmente raggiunto questo obiettivo? L’esempio più citato del potere trasformativo della democrazia è il viaggio in Cina di Richard Nixon nel 1972. Tuttavia, malgrado la grande spettacolarità dell’evento, la visita di Nixon fu resa possibile da un precedente mutamento di fondamentale importanza: una svolta radicale nella percezione che la Cina aveva della propria posizione nei confronti dell’Unione Sovietica. Come disse Henry Kissinger: “Soltanto un’eccezionale preoccupazione per gli scopi dell’Urss” – e per la massiccia dislocazione di forze sovietiche lungo il confine cinese – “può spiegare il desiderio di Pechino di sedersi al tavolo con una nazione fino a quel momento considerata suo arcinemico”. Inoltre, secondo il sinologo Jonathan Spence, i leader cinesi avevano un disperato bisogno di aumentare la propria produzione interna di petrolio, ma non avevano “né le risorse né la tecnologia” per farlo. Ne seguì, per qualche anno, uno scambio di segnali e messaggi attraverso intermediari, che portarono prima a una serie di colloqui segreti fra Kissinger e i leader cinesi e infine alla visita di Nixon. Ecco ciò che ha scritto lo stesso Kissinger a proposito di questa visita: “Non sono a conoscenza di nessun altro viaggio presidenziale organizzato con altrettanta cura. La voluminosa documentazione raccolta conteneva saggi sugli obiettivi primari del viaggio e su tutti i temi dell’agenda precedentemente concordata. Si presentava la posizione che si riteneva i cinesi avrebbero mantenuto su ognuno di questi temi e le argomentazioni che il presidente avrebbe potuto mettere in campo. Nixon se le imparò a memoria e le seguì scrupolosamente nei suoi colloqui con Chou En-Lai”. La visita in Cina, quindi, consacrò, ma non causò, un cambiamento di rotta nei rapporti tra le due nazioni; fu il punto culminante di una nuova impostazione, non la scintilla che la promosse. Qualcosa di molto simile si può dire per un altro celebre evento, il viaggiodel presidente egiziano Anwar Sadat a Gerusalemme nel 1977. Nonostante l’attacco a sorpresa che aveva lanciato nell’ottobre del 1973, Sadat aveva sottratto l’Egitto alla fallimentare “rivoluzione” del suo predecessore Gamal Abdel Nasser, in particolare allontanando le forze militari sovietiche e aprendo il paese all’occidente. Nel luglio del 1977, in un’intervista per la Abc, comunicò la sua intenzione di porre fine al conflitto. A novembre, in un discorso rivolto all’Assemblea del popolo egiziano, ribadì il suo proposito: “Dichiaro in tutta serietà che sono pronto ad andare fino alla fine del mondo – e Israele rimarrà sorpresa sentendomi dire che sono pronto ad andare da loro, nella stessa Knesset”. Due giorni dopo, il primo ministro israeliano Menachem Begin rispose con un discorso televisivo indirizzato al pubblico egiziano, in cui diceva: “Sarà un piacere accogliere il vostro presidente con la tradizionale ospitalità che voi e noi abbiamo ereditato dal nostro comune antenato Abramo”. Otto giorni dopo Sadat era a Gerusalemme. Prima che questa svolta si concretasse in un trattato di pace occorsero lunghi e difficili negoziati, mediati da Jimmy Carter. Se la visita rappresentò comunque una svolta, ciò fu dovuto non alle parole che si scambiarono i leader dei due paesi ma al fatto che Sadat, dopo lunghe riflessioni sui veri interessi dell’Egitto, aveva finalmente deciso di affrontare l’autentico nodo cruciale del conflitto: il rifiuto degli arabi di riconoscere l’esistenza di Israele. Per Sadat, esattamente come per Chou e Mao, l’incontro faccia a faccia con il proprio rivale era il risultato non la causa del mutamento di rotta. Molti altri rivolgimenti e riposizionamenti si sono verificati senza o persino malgrado intense attività diplomatiche. Uno di questi è stata la fine della Guerra fredda – uno degli eventi più significativi dei tempi moderni. Michail Gorbaciov fu nominato segretario generale nel 1985 e in quel medesimo anno si incontrò con il presidente americano Ronald Reagan. I due leader si incontrarono nuovamente nel 1986 e nel 1987 e due volte nel 1988. Nel 1989 Gorbaciov si incontrò con il nuovo presidente americano, George H. W. Bush. Tuttavia, né nelle dichiarazioni dello stesso Gorbaciov né inquelle di osservatori esterni si trova il minimo indizio che questi incontri faccia a faccia abbiano esercitato una concreta influenza sulla sua evoluzione intellettuale, che è stata la vera forza motrice della trasformazione dell’Unione Sovietica e infine della sua scomparsa. Gorbaciov ha raccontato che questo percorso interiore era guidato dal desiderio di modernizzare e rivitalizzare il paese che governava. Già al suo terzo anno di mandato disse che il sistema gli causava dei “problemi di coscienza”, parlò in termini positivi del “pluralismo” e persuase il Comitato centrale ad accettare che “avevamo bisogno di democrazia come dell’aria”. La fine della Guerra fredda è stata il risultato dei suoi incontri con la realtà sovietica, non con il presidente americano. In realtà, è difficile trovare un episodio in cui la diplomazia ha permesso di “colmare il divario” con una nazione ostile o nemica. Il che non significa affatto dire che la diplomazia non ci abbia provato. Più e più volte gli statisti americani e di vari paesi occidentali hanno fatto intensi sforzi diplomatici al più alto livello per trasformarela mente dei leader nemici. Come dimostra la storia dei summit della Guerra fredda, i risultati sono stati nel migliore dei casi insignificanti e, nel peggiore, deleteri. Dopo la Seconda guerra mondiale, il primo incontro fra capi di stato sovietici e americani (più britannici e francesi) si tenne a Ginevra nel luglio del 1955, poco dopo la nomina di Nikita Kruscev a segretario generale. La stampa mostrò grande entusiasmo per lo “spirito di Ginevra”, ma Charles Bohlen, allora ambasciatore americano a Mosca, definì l’esito dell’incontro “deludente e scoraggiante”. Meno di un anno dopo, i carrarmati sovietici repressero la rivoluzione ungherese e Kruscev minacciò Londra e Parigi di un attacco atomico per la questione di Suez. Il primo summit bilaterale tra Stati Uniti ed Unione Sovietica si svolse nel 1959 con la visita di Kruscev in America. I suoi colloqui privati con il presidente Eisenhower a Camp David furono contrassegnati dalla cordialità e fecero subito parlare di uno “spirito di Camp David”. Ma, in sostanza, come ha osservato lo studioso Adam Ulam, “la visita non portò a nulla di concretotranne che alla prevedibile decisione di tenere un altro summit” tra i quattro grandi del mondo. All’apertura di questo nuovo incontro, nel maggio del 1960, Kruscev richiese delle scuse ufficiali per un aereo-spia U-2 che i sovietici aveva appena catturato. Eisenhower si rifiutò e l’incontro terminò ancora prima di cominciare. I negoziati ripresero a Vienna poco dopo l’elezione di John F. Kennedy alla Casa Bianca. Questa volta, fu la stampa sovietica a esaltare lo “spirito di Vienna”. Ma secondo Bohlen, presente in veste di consigliere del nuovo presidente: “I risultati dei colloqui furono alquanto mediocri. Il leader sovietico assicurò Kennedy che l’Unione Sovietica avrebbe ripreso i test nucleari soltanto se l’avesse fatto prima qualche altro paese. Ma mentì, perché ad agosto i sovietici iniziarono una serie di test che si protrasse per due mesi e terminò con la detonazione dell’ordigno più potente mai fatto esplodere fino a quel momento”. E gli esiti negativi non si limitarono a questo. Nelle sue memorie, Kruscev racconta di essere rimasto “piuttosto compiaciuto” nel trovare JFK particolarmente “interessato … ad evitare un conflitto con l’Unione Sovietica”. Talmente compiaciuto, evidentemente, che due mesi dopo fece stendere il filo spinato ed erigere il muro di Berlino. Il successore di Kennedy, Lyndon B. Johnson, incontrò il successore di Kruscev, Alexei Kosygin, nel 1967 a Glassboro, nel New Jersey, e puntualmente i media americani iniziarono a evocare lo “spirito di Glassboro”. Ma questo incontro diplomatico fu talmente inutile che alla fine non venne nemmeno emesso un comunicato. L’anno seguente, le forze del Patto di Varsavia repressero la Primavera di Praga e i comunisti lanciarono l’offensiva del Tet in Vietnam. Colloqui ben più ambiziosi furono avviati dal presidente Nixon, con l’aiuto del suo consigliere per la Sicurezza nazionale Henry Kissinger. L’interlocutore di Nixon era Leonid Breznev, che aveva spodestato Kosygin al vertice sovietico. Il negoziato culminò nel 1972 con un summit a Mosca nel quale furono firmati la Declaration of Basic Principles e il trattato Salt 1. In America, i critici del trattato, guidati dal senatore Henry M. Jackson, protestarono che concedeva all’Urss un certo vantaggio sui missili intercontinentali. I suoi sostenitori replicarono che l’importanza non stava negli effetti che aveva sull’arsenale delle due nazioni ma nel suo valore simbolico come pietra miliare di un processo di distensione, o, per citare le parole di Kissinger, “di una più articolata decisione di porre le nostre relazioni su una nuova base di moderazione, cooperazione e crescente fiducia”. Queste grandi speranze furono frantumate un anno dopo dal ruolo avuto dai sovietici nell’armamento dell’Egitto e della Siria in vista dell’attacco a sorpresa su Israele nella guerra dello Yom Kippur e dalla successiva minaccia di intervenire direttamente nel conflitto. Negli anni seguenti il Cremlino ridicolizzò talmente la Dichiarazione che il successore di Nixon, Gerald Ford, proibì addirittura l’uso del termine “distensione”. Jimmy Carter, invece, riprese la ricerca della distensione in termini ancora più concilianti e modesti di quelli proposti da Kissinger. Nel 1979, dopo avere assistito senza fare nulla alla caduta di alcuni paesi africani e latinoamericani nelle mani del comunismo, Carter riuscì finalmente a cogliere il suo santo graal, vale a dire un nuovo trattato Salt firmato a un summit nel quale il presidente americano abbracciò e baciò calorosamente un Breznev visibilmente sconcertato. Pochi mesi dopo, le forze sovietiche invasero l’Afghanistan. Se trentacinque anni di summit tra Stati Uniti e Urss non hanno dato risultati positivi, altri negoziati ad alto livello con regimi comunisti hanno prodotto esiti del tutto negativi. Nel 1973, a Kissinger e al negoziatore nordvietnamita Le Duc Tho fu conferito il premio Nobel per la pace per avere stabilito un accordo che impegnava entrambi i paesi a ritirare le proprie truppe dal Vietnam meridionale. Gli americani mantennero gli impegni presi, mentre i nordvietnamiti ignorarono i propri e lanciarono una grande offensiva che permise loro di completare la conquista del sud. Kissinger si lamentò quando il Congresso decise di non fornire più appoggio al governo di Saigon, che altrimenti, almeno a suo parere, “nel 1975 non sarebbe caduto”. Potrebbe anche aver ragione, ma questo non fa modificare il giudizio negativo sul accordo negoziato con i comunisti. Lo stesso vale per “l’intelaiatura d’accordo” stabilita tra l’Amministrazione Clinton e la Corea del nord nel 1994. L’impresa fu portata a termine dall’ex presidente Carter, ancora totalmente fiducioso nel suo talento diplomatico nonostante i pessimi risultati ottenuti durante la sua permanenza alla Casa Bianca. Carter fece un pellegrinaggio dal dittatore nordcoreano Kim Il Sung il cui esito fu una falsa facciata di disarmo dietro alla quale Pyongyang potè tranquillamente proseguire lo sviluppo di armi nucleari. Per rendersi veramente conto della persistenza di questo schema di preoccupante ripetitività si è inevitabilmente spinti a considerare precedenti tentativi compiuti dai leader occidentali di dialogare con i propri nemici. Durante la Seconda guerra mondiale il dittatore sovietico Josif Stalin non era un nemico, ma un alleato. A Washington e a Londra, tuttavia, alcuni presentivano vagamente la possibilità di un futuro conflitto con l’Urss – conflitto che Stalin considerava assiomatico. Nella speranza di assicurarsi il mantenimento della collaborazione di Mosca dopo la conclusione della guerra, Franklin D. Roosevelt e Winston Churchill riponevano grande fiducia nei loro contatti personali con Stalin. Dopo essere andato a trovare il leader sovietico a Mosca nel 1942, Churchill scrisse queste parole a Roosevelt: “Credo di avere stabilito una relazione personale che si rivelerà utile”. Nell’aprile del 1943, l’ambasciatore americano a Mosca comunicò al Cremlino il desiderio di Roosevelt di “sedersi a un tavolo con Stalin per discutere tutti i problemi” ed evitare “ogni possibile incomprensione”. E il presidente americano replicò così a Churchill: “Penso che posso trattare con Stalin meglio del tuo ministero degli Esteri o del mio Dipartimento di stato. Lui preferisce me, e intendo fare in modo che resti così”. Stalin giocò alla grande su queste illusioni, manovrando per ottenere il consenso occidentale al dominio sovietico sull’Europa orientale e replicando a ogni appello alla moderazione puntando il dito su presunti irriducibili del Cremlino che gli rendevano “impossibile esaudire i vostri desideri”. Allo stesso modo, Stalin si mostrò estremamente esitante quando Roosevelt gli espose il suo progetto di costituire una struttura per mezzo della quale gli alleati di guerra avrebbero collaborato al mantenimento della pace. Stalin si rifiutò di accettare l’idea delle Nazioni Unite fino a quando il presidente americano non gli assicurò, in un colloquio privato, che la nuova organizzazione sarebbe stata guidata da “quattro poliziotti” (Stati Uniti, Gran Bretagna, Unione Sovietica, Cina) e che l’onere di “pattugliare” l’Europa sarebbe spettato alla Gran Bretagna e all’Unione Sovietica. Persino a quel punto, continuò a fare tira e molla con Roosevelt, chiedendo che all’Urss fossero concessi quindici seggi nell’Onu (uno per ogni stato della repubblica sovietica), prima di accordarsi per tre. Nell’ultimo summit di guerra, tenutosi a Potsdam nel lugliodel 1945, il principale obiettivo dell’America era assicurarsi l’ingresso dell’Urss nella guerra contro il Giappone. Mentre la conferenza era ancora in corso, il nuovo presidente americano, Harry Truman (oggi giustamente ricordato come il presidente che affrontò la minaccia sovietica ed elaborò la strategia del contenimento), fu informato con un messaggio in codice che una bomba atomica era pronta per essere usata. Comunicò la notizia a Stalin, il quale, secondo quanto si legge nelle memorie dello stesso Truman, disse “che questa notizia lo confortava e che sperava che ne avremmo fatto un buon uso contro i giapponesi”. Il 9 agosto, il giorno in cui fu lanciata la seconda bomba, l’Unione Sovietica si lanciò come un avvoltoio sul Giappone per divorare quel che rimaneva del suo ormai moribondo impero. Nei cinque giorni che passarono prima della resa ufficiale di Tokyo, i russi invasero e occuparono la Manciuria e la Corea settentrionale, con conseguenze di cui subiamo ancora oggi i risvolti. Tornando ancora più indietro nel tempo, arriviamo al disastro causato dai negoziati delle democrazie con la Germania di Hitler. L’èra dell’appeasement non si riduce a un solitario sbaglio del primo ministro britannico Neville Chamberlain al Congresso di Monaco del 1938. Al contrario, si prolunga per parecchi anni, nel corso dei quali le democrazie occidentali fecero notevoli sforzi diplomatici per affrontare le incombenti minacce dei paesi fascisti e comunisti. Già nel 1935, quando Hitler violò gli obblighi al disarmo imposti dal trattato di Versailles, il ministro degli Esteri britannico, John Simon, si precipitò in Germania per parlare con il Führer. Ignorando la violazione tedesca del trattato, stabilì con Hitler un nuovo patto per limitare la quantità delle forze navali. Hitler, che non aveva la minima intenzione di rispettare questo patto, parlava della sua cerimonia di ratificazione come del “giorno più felice della mia vita”. I francesi, nel frattempo, inviarono il ministro degli Esteri, Pierre Laval, prima a Mosca per firmare un accordo difensivo con Stalin e poi a Roma per offrire “mano libera” in Etiopia a Benito Mussolini. Successivamente, quando Mussolini rese nota la sua intenzione di conquistare l’Etiopia, Londra inviò in Italia Anthony Eden per cercare di fermarlo offrendogli una parte del Somaliland britannico. La persistenza con cui le democrazie cercavano di stabilire un dialogo con qualsiasi potenziale nemico convinse Mussolini della loro debolezza: così, alla fine del 1936annunciò la creazione di un “asse Roma- Berlino”. La storia del Congresso di Monaco è stata raccontata troppe volte per essere ripetuta ancora, ma è opportuno ricordare che non si trattò di un unico incontro bensì di tre, ognuno dei quali diede sempre maggiore coraggio a Hitler. In questo modo le democrazie non soltanto si ritrovano con quella guerra che avevano cercato così tanto di evitare ma anche nella situazione di dover partire da una condizione svantaggiosa. Infatti, oltre a lasciare nelle mani di Hitler la considerevole potenza industriale della Cecoslovacchia, la pusillanimità mostrata dall’occidente a Monaco ebbe su Stalin un effetto simile a quello che precedenti manifestazioni di debolezza avevano avuto su Mussolini. Nel giro di pochi mesi, l’ambasciatore sovietico si sarebbe recato nel palazzo del ministero degli Esteri di Berlino per avviare il negoziato che portò al patto Hitler-Stalin. Sia quando cercarono di affrontareil fascismo negli anni Trenta, sia quando si incontrarono con Stalin durante la Seconda guerra mondiale, i leader occidentali si lasciarono ingenuamente ingannare e i loro errori ci sono costati moltissimo. In loro difesa, si può dire che avevano a che fare con qualcosa di nuovo: ideologie e ambizioni rivoluzionarie messianiche ben più vaste di quelle concepite da qualsiasi potenza convenzionale, e uomini senza nemmeno la minima traccia di senso morale. Non c’era nulla in tutta la precedente storia diplomatica che avesse potuto preparare questi statisti democratici ad affrontare dittatori totalitaristi. Come dobbiamo giudicare, dunque, i nostri più esperti statisti di oggi che continuano a indulgere in simili follie senza alcuna giustificazione? Due anni fa, quando la situazione dell’America in Iraq erano al punto più critico, il Congresso costituì un Iraq Study Group, guidato da James Baker e Lee Hamilton e comprendente ex senatori,segretari di stato e alla Difesa, personale della Casa Bianca e un giudice della Corte suprema. Giunte alla conclusione che gli Stati Uniti stavano per perdere la guerra, queste autorevoli personalità sconsigliarono sia un “precipitoso ritiro” sia l’invio di nuove truppe. Per quadrare il cerchio di togliersi dal pantano iracheno senza incorrere in una resa americana, proposero un “deciso sforzo diplomatico” teso a coinvolgere l’Iran e la Siria – due paesi che, a loro detta, “condividevano l’interesse di evitare le terribili conseguenze che provocherebbe un Iraq abbandonato al caos, come, in particolare, una catastrofe umanitaria e una grave destabilizzazione regionale”. Esaminiamo brevemente ciò che sappiamo di questi due paesi. Negli anni Ottanta il regime baathista della Siria ha ucciso ventimila suoi cittadini per sopprimere una rivolta islamica, mentre la Repubblica islamica dell’Iran, nella guerra contro l’Iraq, ha mandato allo sbaraglio migliaia di esseri umani. Entrambi i regimi praticano una tortura sistematica, e hanno ridotto la propria popolazione carceraria massacrando centinaia di prigionieri indifesi. I due paesi collaborano per fornire armi a Hamas e Hezbollah e sono le due principali teste di ponte per far arrivare terroristi ed esplosivi in Iraq. Immaginare che il rispetto delle preoccupazioni “umanitarie” e il desiderio di “stabilità” regionale spingerebbe questi regimi a mettere da parte i propri risentimenti contro il “Grande Satana” significa indulgere in illusioni altrettanto gravi di quelle che fuorviarono Roosevelt a Yalta, Laval a Roma e Chamberlain a Monaco – e senza la giustificazione di un’inesperienza storica. Fortunatamente, il presidente Bush ha adottato una politica completamente opposta a quella suggerita dalla Commisione Baker-Hamilton. Ha infatti ordinato l’attuazione dell’operazione “surge” e il risultato è stato che in Iraq la situazione ha iniziato a girare a nostro favore. Se vinceremo la guerra, lo si dovrà anche al fatto che abbiamo ignorato i consigli di questa commissione. Purtroppo, però, la tentazione diplomatica continua a persistere, anche negli stessi corridoi della Casa Bianca. Avendo speso tutta la sua ultima riserva di capitale politico sull’operazione “surge”, l’Amministrazione si è inevitabilmente esposta alle accuse dei suoi critici in altri ambiti. Ha ripreso a cercare di ragionare con la Corea del nord, ha sponsorizzato una nuova serie di negoziati tra Israele e palestinesi e, più recentemente, ha preso parte ai colloqui con Teheransebbene questo paese continui il suo programma di arricchimento dell’uranio. Nel complesso, comunque, il verdetto su questi esercizi diplomatici rimane sempre lo stesso: si rischia molto, si guadagna poco e si può perdere moltissimo. Dire che parlare con i nostri nemici ha causato più spesso danni che non benefici non significa sostenere che non dovremmo mai farlo. Ma quando decidiamo di avviare un dialogo, è essenziale non cadere nell’illusione che, chiunque siano i nostri interlocutori e quali che siano i loro scopi, abbiamo la forza di manipolarli o di persuaderli a diventare nostri amici e a promuovere i nostri interessi. Se sono veramente cambiati e hanno davvero intenzione di porre le loro relazioni con noi su una nuova base, troveranno facilmente modi per farcelo sapere – come è avvenuto, malgrado qualche equivoco iniziale, sia nel caso di Mao e Chou sia in quello di Sadat. E’ per questo che non ha senso asserire, come alcuni continuano a fare, che nel 2003 Teheran, attraverso un diplomatico svizzero, abbia fatto sapere di essere pronta a risolvere tutte le sue differenze con Washington e che l’Amministrazione non abbia saputo cogliere l’occasione. La cosa più importante è sapere con chi stiamo parlando. In particolare, i regimi rivoluzionari messianici operano in un universo morale fondato su valori completamente antitetici ai nostri. Se si dichiarano pronti al dialogo, il loro scopo non è quello di migliorare le loro relazioni con noi ma di ottenere un vantaggio su di noi. La fatale illusione della diplomazia è quella di credere che, per mezzo del dialogo, i leoni possano essere persuasi non soltanto a convivere pacificamente con gli agnelli ma persino a diventare essi stessi agnelli. Ma questa è soltanto una chimera. Infine, dobbiamo sempre ricordare che questi regimi sono in uno stato di guerra permanente contro i loro stessi sudditi, e che ogni forma di legittimazione che ottengono dall’esterno serve a scoraggiare le speranze di questi sudditi nella libertà e a infiacchire la loro volontà di resistenza. Persino il governo dell’Unione Sovietica desiderava il riconoscimento simbolico di essere trattato dall’America da pari a pari. Il prestigio dei tiranni che governano l’Iran, la Siria, il Venezuela, Cuba e la Corea del nord (vale a dire i paesi con i cui leader Obama ha dichiarato di essere pronto a parlare nel suo primo anno di presidenza) sarebbe tanto più rafforzato da un colloquio diretto con un presidente americano. Da questo punto di vista, c’è molto da perdere, sia per noi sia per coloro che sono sottoposti al loro dominio. Dobbiamo parlare con i nostri nemici? Sì, per dire loro che cosa pensiamo di loro e quali sono i valori per cui combattiamo. Dobbiamo parlargli, insomma, secondo i nostri termini e non secondo i loro, e avendo sempre in mente le loro popolazioni prigioniere. Ma alla domanda posta da Anderson Cooper al senatore Obama, la risposta più semplice e giusta da dare era “no”. Se Obama vincerà le elezioni, il mondo sarà più al sicuro soltanto se Obama stesso se ne sarà reso conto prima di prendere in mano le redini della Casa Bianca. © Commentary (traduzione di Aldo Piccato)
Christian Rocca: " Lo Yes we neocon di Barack deluderà molto i fan europei "
E’molto probabile, anzi quasi certo, che il presidente Barack Obama deluderà molti suoi fan europei, a cominciare dai leader del Partito democratico italiano e dagli editorialisti già commossi per la storica vittoria del candidato nero del 4 novembre. Chi crede che con l’elezione di Obama cambierà radicalmente l’atteggiamento internazionale dell’America rispetto alle questioni che riguardano i suoi interessi strategici e la sicurezza nazionale sarà costretto a confrontarsi con una realtà di posizioni obamiane ben più articolate e sorprendenti. Il New York Times di giovedì, per dire di un giornale che sostiene Obama e crede nel significato catartico della sua elezione, in un lungo articolo sulla sua politica estera sull’Iran ha scritto che “Obama ha la stessa durissima strategia enunciata dall’Amministrazione Bush”, ovvero quella di non voler permettere che gli ayatollah producano uranio in territorio iraniano. “La posizione di mister Obama – continua il Times – è più vicina all’approccio di tolleranza-zero adottato dall’Amministrazione Bush”. E sono due. Sul Pakistan, ha scritto sempre il Times, “è Obama, più che McCain, il candidato molto più propenso a minacciare di inviare truppe americane per raid terrestri”. Su quando intervenire militarmente all’estero, si legge nello stesso articolo, “Obama ha delineato una posizione che è opposta all’attitudine del presidente Bush del 2000”, ovvero del Bush realista e isolazionista pre-11 settembre, “ma suona molto simile a quella attuale di Bush”. E sono tre. Sui rapporti con le grandi potenze, a cominciare dalla crisi georgiana con la Russia, secondo il New York Times, “la reazione di Obama è stata molto più vicina a quella dell’Amministrazione Bush”. E sono quattro: su Iran, nucleare, Pakistan e Russia, Obama propone politiche simili a quelle del terribile Bush. E’ vero che alle primarie Obama ha battuto i suoi colleghi di partito perché era il candidato contrario alla guerra in Iraq, e quello che aveva mostrato la volontà di sedersi al tavolo delle trattative con i nemici iraniani e nordcoreani e cubani, ma è altrettanto vero che i leader democratici, da Hillary Clinton al suo stesso vice Joe Biden, gli hanno spiegato in diretta televisiva che queste posizioni sono ingenue e pericolose, come dimostra storicamente il saggio di Joshua Muravchik pubblicato su queste pagine. Obama avrà certamente un atteggiamento più collaborativo e meno scettico delle istituzioni internazionali rispetto a quello di George W. Bush, ma non molto distante dal comportamento dell’ultimo presidente del Partito democratico, Bill Clinton. La guerra clintoniana, e dalemiana, in Kosovo è stata dichiarata senza alcuna autorizzazione dell’Onu e in assenza di risoluzioni del Consiglio generale (Saddam Hussein, invece, ne aveva violate sedici). La linea clintoniana, elaborata dal suo Segretario di stato Madeleine Albright, era “agire multilateralmente quando è possibile, unilateralmente quando è necessario”. Quella di Obama non sarà molto diversa. Al dibattito presidenziale di Nashville, il 7 ottobre scorso, Obama ha spiegato bene e senza giri di parole la sua filosofia: “Quando agiamo nei nostri interessi non riconosco il potere di veto dell’Onu né di chiunque altro”. Obama parlava di Iran: “Non possiamo permettergli di farsi un’arma nucleare, sarebbe una svolta nella regione, non minaccerebbe soltanto Israele, che è il nostro più grande alleato nella regione e uno dei più grandi nel mondo, ma creerebbe la possibilità che queste armi nucleari finiscano in mano ai terroristi. Non lo possiamo accettare e io farò ogni cosa necessaria a prevenire questo scenario. Non escludo l’opzione militare”. Agli ayatollah iraniani, Obama ha detto: “Se non cambiate comportamento, ci saranno conseguenze terribili”. Il New York Times ha ragione: “Obama ha la stessa durissima strategia enunciata dall’Amministrazione Bush”. Chiamiamola: Yes, we neocon. Obama, infatti, ha ristabilito il tradizionale principio dell’inteverntismo liberal, e per certi aspetti anche neoconservatore, fatto proprio in questi anni da Bush, secondo cui l’America in certe occasioni ha il dovere morale di intervenire militarmente, anche se non sono direttamente minacciati i suoi interessi nazionali. Al dibattito di Nashville, Obama ha fatto una tirata contro gli aiuti ai dittatori, ha spiegato che va diffusa la democrazia e ha detto che “non sempre in gioco c’è la sicurezza nazionale, ma in ballo ci possono essere questioni morali. Se avessimo potuto intervenire in modo adeguato nell’Olocausto, chi tra noi avrebbe potuto dire che non avremmo avuto l’obbligo morale di intervenire? Se avessimo potuto fermare il Ruanda, avremmo dovuto considerare fortemente di agire”. Infine: “Dobbiamo considerare che sia parte dei nostri interessi, dei nostri interessi nazionali, intervenire dove sia possibile”.
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