Intervista a Norman Podhoretz sulla politica estera americana, la guerra irachena, la minaccia iraniana, l'eredità di Bush e le elezioni presidenziali imminenti
Testata: Il Foglio Data: 24 ottobre 2008 Pagina: 1 Autore: Christian Rocca Titolo: «Il grande vecchio dei neocon spiega l'America tra George W. e Obama»
Da IL FOGLIO del 24 ottobre 2008, un'intervista di Christian Rocca a Norman Podhoretz, uno dei leader del movimento neoconservatore:
New York. Norman Podhoretz è un raffinato letterato e un combattivo polemista conservatore con il dna della sinistra ebraica newyorchese. Alla fine degli anni Settanta è diventato uno dei leader del movimento neoconservatore, quel piccolo gruppo di intellettuali liberal che, deluso dalla piega radicale post sessantottina presa della sinistra americana, si è spostato a destra fino a diventare una delle anime della Right Nation. Settantanove anni a gennaio, Podhoretz trasmette energia, solidità e intelligenza sia quando ricorda le grandi battaglie culturali e politiche di quegli anni sia quando parla di Barack Obama, di elezioni e di Iran. Invitato dal Foglio e dal suo direttore da Antonucci, una trattoria italiana dell’Upper East Side, l’ex gran capo di Commentary ringrazia per l’invito (“da quando ho lasciato la direzione non sono più in nota spesa”), recita in italiano un paio di versi dell’Inferno di Dante e svela che sta scrivendo un libro dal titolo “Perché gli ebrei sono liberal di sinistra?” (“E’ la domanda più frequente che mi abbiano mai rivolto, ho pensato che sia giunta l’ora di rispondere”). Poco prima dell’arrivo degli spaghetti con meatballs, che fanno molto Soprano, Podhoretz affronta il tema George W. Bush, con il quale un anno fa ha avuto un colloquio privato di 45 minuti, durante i quali gli ha spiegato perché avrebbe dovuto bombardare le centrali nucleari iraniane, prima che gli ayatollah riescano a sviluppare la Bomba che quasi certamente scatenerà una guerra atomica: “Karl Rove prendeva appunti e il presidente mi ha fatto qualche domanda, senza però lasciar trasparire le sue intenzioni, ma mi sono convinto che prima della fine del suo mandato avrebbe bombardato l’Iran e non è detto che non lo faccia subito dopo le elezioni. Cheney è favorevole, ma pare che nel caso l’intero Pentagono si dimetterebbe”. L’ex direttore di Commentary è convinto che l’occidente sia impegnato nella “Quarta guerra mondiale” (è il titolo del suo ultimo libro) di cui Iraq e Afghanistan sono soltanto due fronti, ma la questione centrale è quella dell’Iran, “certo non la crisi economica”. Bush è stato il primo leader a rendersene conto e a organizzare una risposta politica, militare e culturale, per questo sarà ricordato come un grande presidente, malgrado le critiche di questi anni. “Pensate a Harry Truman – aggiunge Podhoretz, a proposito di un altro presidente che ha combattuto il totalitarismo dei suoi tempi – Oggi è considerato un gigante, malgrado avesse lasciato la Casa Bianca con indici di gradimento più bassi di quelli di Bush”. Gli errori tattici compiuti in Iraq, per quanto dolorosi non sono stati rilevanti se confrontati con i ben più catastrofici passi falsi compiuti da Franklin Roosevelt durante la Seconda guerra mondiale nella battaglia di Guadacalnal (1942) e nella battaglia delle Ardenne (11 mila morti in due settimane del 1944): “Bush ha impiegato tre anni per trovare il generale giusto per vincere in Iraq, ma anche Abramo Lincoln ci aveva messo tre anni a trovare il comandante giusto per vincere la guerra civile Podhoretz spiega il crollo della popolarità di Bush con l’egemonia culturale di Antonio Gramsci: “La sinistra liberal, pur non conoscendo Gramsci, ha applicato la sua lezione e ha organizzato una guerriglia anti Bush volta a delegittimare qualsiasi cosa facesse il presidente. Contro Bush non si sono schierati soltanto i democratici, ma l’intera cultura di sinistra e tutte le principali istituzioni culturali del paese, dalle università ai media. Non sono riusciti a sconfiggerlo nel 2004, ma quando in Iraq le cose sono cominciate ad andare male, anche se io credo che anche allora non andassero così male, la guerriglia è diventata inarrestabile”. Podhoretz non è pessimista al punto di credere che la moderna identità occidentale sia incapace di affrontare il peso di una guerra, ma concede che una buona parte del mondo, soprattutto l’Europa, sia dominata da una cultura pacifista e contraria alla guerra: “La differenza tra l’America e l’Europa è che qui c’è una metà del paese che non è così, anzi proprio su questo punto siamo impegnati in una guerra civile culturale”. Podhoretz sostiene John McCain, anche se alla primarie era un consulente di Rudy Giuliani, ma riconosce che questa volta “è molto probabile” che sarà la metà più europea dell’America a vincere. “Ma non sono sicuro al cento per cento, è ancora possibile un successo di McCain e, in ogni caso, prima o poi la sinistra avrebbe dovuto vincere” (segue dalla prima pagina) Norman Podhoretz non ama Barack Obama perché “è esattamente il prodotto della cultura politica di sinistra”, sempre meno liberal e sempre più radicale, contro cui l’intellettuale newyorchese si batte da trentacinque anni. “La sua formazione è quella, questo è tutto quello che sa – ripete Podhoretz – E’ andato alla Columbia, ha frequentato giurisprudenza a Harvard, e a Chicago s’è circondato di personaggi radicali come Bill Ayers e le Black Panthers e ha fatto politica sotto l’influenza delle idee di Saul Alinsky, un vero comunista, anche se non membro del partito, uno che voleva rovesciare il sistema”. Obama, continua Podhoretz, deve essersi stupito quando è scoppiato il caso del bittergate, cioè quando un blogger ha raccontato che a un evento di San Francisco chiuso al pubblico il candidato democratico aveva detto che la gente della Pennsylvania e dell’Ohio è così amareggiata dalla crisi economica da trovare conforto soltanto aggrappandosi alle armi e alla religione: “Per Obama e per la sua cultura radicale, questa è un’affermazione normale, ovvia”. Obama però non è soltanto questo, spiega Podhoretz, “è un demagogo di talento, capace di suscitare emozioni come solo l’ex governatore della Louisiana Huey Long, un paio d’anni fa interpretato da Sean Penn al cinema, era in grado di fare. E’ anche un vero opportunista, pronto a fare e a dire qualsiasi cosa pur di essere eletto, cosa che va benissimo”. La domanda, si chiede Podhoretz, però è “quale dei due Obama prevarrà se sarà eletto, perché il presidente degli Stati Uniti non è un uomo libero e non è un dittatore, ma è soggetto a numerose pressioni e se riesce a gestire anche soltanto due o tre cose che vuole fare è già molto”. Secondo Podhoretz, Obama si batterà duramente per far approvare il programma liberal in cui crede, “ma potrebbe rimanere deluso, forse non al punto di cambiare idea ma di trovarsi in una situazione in cui non avrà più voglia di battersi per le cose che ha promesso in campagna elettorale”. Una di queste cose è l’Iraq. “Se Obama diventa presidente – dice Podhoretz – la guerra in Iraq diventa la sua guerra, gli piaccia o no”. La stessa cosa è successa con Richard Nixon col Vietnam, malgrado la guerra sia stata cominciata da John Kennedy e combattuta da Lyndon Johnson: “La sconfitta in Iraq sarà una sconfitta di Obama, quindi non credo che farà quest’errore, anche perché potrebbe gestire una vittoria di cui, per quanto non proprio sua, potrebbe prendersi il merito”. Podhoretz si immagina un Obama che non si ritira dall’Iraq nel modo che ha promesso, per evitare di essere ricordato come il presidente della disfatta, ma potrebbe anche fare il contrario. Il punto sta tutto qui: “Non sappiamo bene chi sia questo ragazzo”. Il referendum sul candidato democratico Podhoretz non crede all’immagine di Obama ricucitore dell’unità nazionale e simbolo catartico della fine della guerra culturale americana: “Bullshit, stronzate, né in Illinois né al Senato ha mai fatto niente di bipartisan. E’ solo grande tattica elettorale, così come è evidente che si è presentato come un profeta e un leader cristiano per fugare i sospetti di essere musulmano. Fossi stato suo consigliere politico, gli avrei consigliato esattamente la stessa cosa”. Malgrado il Partito repubblicano si appresti a una clamorosa sconfitta e non si vedano all’orizzonte nuovi leader conservatori all’altezza, Podhoretz non crede che il movimento conservatore sia davvero in crisi ideologica: “Contro Obama non c’è il movimento conservatore, ma John McCain che è un conservatore di po’ particolare. Queste elezioni sono un referendum su Obama, la gente deciderà se vorrà o no Obama e molti di quelli che voteranno McCain lo faranno perché non vogliono Obama, non perché vogliono McCain”. Podhoretz riconosce la divisione nel movimento conservatore (“inevitabile dopo tutti questi anni”) e definisce dantescamente “ignavi” gli intellettuali come David Brooks e David Frum che cominciano a prendere le distanze. I principi restano solidi, sostiene Podhoretz, anche se è evidente che sarà difficile ritrovare nel breve periodo un movimento conservatore forte come è stato negli ultimi anni: “Non vorrei disilludervi su Reagan, ma non è stato molto diverso da Bush. Alla Casa Bianca ha tradito molte delle idee del movimento, anche sulla politica estera, ma gli è stato perdonato tutto perché ha vinto, per questo credo che ogni serio tentativo di ricreare un movimento conservatore di successo debba essere costruito contro questa guerra di civiltà molto simile alla battaglia contro il comunismo. E’ vero che non ci sono leader all’altezza, ma spesso sono le situazioni difficili come questa a crearli”.
Per inviare una e-mail alla redazione del Foglio cliccare sul link sottostante lettere@ilfoglio.it