Dominique Lapierre riprende un luogo comune della peggiore propaganda antisraeliana il paragone con il Sudafrica dell'apartheid
Testata: L'Opinione Data: 23 ottobre 2008 Pagina: 3 Autore: Michael Sfaradi Titolo: «Le amnesie di Dominique Lapierre»
Da L' OPINIONE del 23 ottobre 2008:
Che Dominique Lapierre sia un letterato famoso è una realtà fuori da ogni dubbio. I suoi libri hanno sempre riscosso successo e la schiera dei lettori si è andata sempre più infoltendo nel corso degli anni. La sua bibliografia è nutrita e per capire lo spessore del personaggio vale la pena di citare i titoli che lo hanno reso famoso: “La città della gioia” (1985) “Più grande dell’amore” (1990) “Mille soli” (1999) “Un dollaro mille chilometri” (2004) “C’era una volta l’Urss” (2005) “Luna di miele intorno al mondo” (2006). Dominique Lapierre ha anche collaborato con altri grandi autori come Larry Collins con il quale ha scritto: “Parigi brucia?” (1965), “Gerusalemme! Gerusalemme!” (1972), “Stanotte la libertà” (1975), “New York brucia?” (2005), e Javier Moro con il quale ha scritto l’indimenticabile “Mezzanotte e cinque a Bhopal” (2001). In occasione dell’uscita in Italia del suo ultimo romanzo “Un arcobaleno nella notte” (Il Saggiatore), i cui diritti saranno completamente devoluti alla sua associazione che si occupa dei poveri di Calcutta, è stato intervistato dal Corriere della sera online. Durante l’intervista ha raccontato le esperienze che lo hanno portato a scrivere questa sua ultima opera, come l’incontro con Helen Lieberman, una donna bianca che trent’anni fa ha lasciato la sua professione di terapista del linguaggio per calarsi nel ruolo a lei più congeniale: aiutare i neri delle baraccopoli di Città del Capo. La Lieberman sfidò il regime dell’apartheid mettendo in serio pericolo anche la sua stessa sicurezza, ed oggi che l’emergenza ancora non è finita, gestisce l’associazione umanitaria Ikamva.
Alcune dichiarazioni dell’autore, però, ci lasciano perplessi. Alla domanda della giornalista sulla situazione sociale in Sudafrica e sulle violenze che ancora sono di casa da quelle parti, la risposta è stata quantomeno bizzarra. Pur ammettendo che ci sono ancora tanti problemi, ha cercato di minimizzarli solo perché i violenti scontri e la criminalità che caratterizzano la vita sudafricana sono fra persone di colore, gente povera che arriva da nazioni confinanti e sudafricani che non vogliono dividere quel poco che hanno. È vero che il regime razzista bianco è finito e questo è un bene, ma ciò non può giustificare le nuove e più cruente violenze che caratterizzano il Sudafrica odierno. Persone di colore che si ammazzano fra loro sono “politicamente corretti” e quindi meno gravi? O l’importante è solo che l’uomo bianco non sia presente e con questo ci laviamo la coscienza? Su questo punto Dominique Lapierre è stato piuttosto evasivo e sinceramente ci aspettavamo da lui più pragmatismo. Alla fine dell’intervista, come ogni bravo autore che deve tenersi buono il suo pubblico intellettuale, ha tirato in ballo Israele, e lo ha fatto, naturalmente, per parlarne male. Israele non c’entra nulla con il suo romanzo, ma la stoccata velenosa, che sicuramente aiuta le vendite, è arrivata lo stesso. Secondo Lapierre è un peccato che Israele non abbia un Mandela che sappia valutare politicamente il futuro, “se ci fosse un Mandela israeliano si potrebbe sperare nella pace” ha dichiarato, come se la pace dipendesse unicamente da Israele.
Lapierre, e non è il solo, dimentica completamente quanti sono, e sono tanti, i nemici d’Israele che la vogliono distruggere, non dice che la pace, come la guerra, non si fa da soli e che per una pace in Medio Oriente serve anche la volontà araba che è completamente latitante, punto che lui ha abilmente ignorato. La cosa più grave ed offensiva per una vera democrazia come quella israeliana è l’ennesimo tentativo di legare l’immagine di Israele all’aparthaid. Chiunque l’abbia visitata può testimoniare quanto quest’affermazione sia lontano dalla realtà. È vero che Israele non ha un Mandela, ma non bisogna dimenticare che ha avuto un Ben Gurion, una Golda Meir, un Menachem Begin (premio Nobel per la pace), un Yitzhak Rabin (premio Nobel per la pace) ed ha un presidente come Shimon Peres (Premio Nobel per la pace). Leader politici che sia in passato che nel presente sono e sono stati sempre pronti ad arrivare ad un trattato di pace che dia serenità a tutte le genti della regione. Queste accuse ad Israele, in gran parte ingiustificate, da parte di intellettuali non fanno bene alla pace ma l’esatto contrario, perché nella sponda araba chi ha interesse a fare guerra e a cercare la distruzione dello stato ebraico non sentendosi richiamato alle sue responsabilità continuerà in eterno la guerriglia e il terrorismo sentendosi spalleggiato e nel giusto. Se si vuole accusare qualcuno per la mancanza di pace in Medio Oriente, bisogna spedire le accuse, anche se non è “politicamente corretto”, ad altri indirizzi, come ad esempio Teheran, Damasco e Beirut.
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