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Il Giornale Rassegna Stampa
23.10.2008 Il presunto tentativo del Mossad di eliminare il capo terrorista Nasrallah e il diario ritrovato di Ilan Ramon, morto sullo shuttle esploso nel 2003
due notizie da Israele

Testata: Il Giornale
Data: 23 ottobre 2008
Pagina: 19
Autore: Gian Micalessin - R.A. Segre
Titolo: ««Il Mossad ha avvelenato il capo di Hezbollah» -»
Da Il GIORNALE del 23 ottobre 2008, un articolo di Gian Micalessin su un presunto tentativo israeliano di eliminare lo sceicco Hassan Nasrallah,  "guida" del gruppo terroristico Hezbollah :

Per salvarlo hanno dovuto mandargli quindici specialisti da Teheran. Stavolta il Mossad ci è andato vicino. Stavolta la grande caccia al nemico numero uno sembrava conclusa. Il veleno era già stato inoculato e il segretario generale del gruppo libanese Hezbollah, Hassan Nasrallah, sembrava già in agonia. Ma i medici di Teheran hanno fatto il miracolo, rianimando il grande capo e sottraendolo alla morte.
L’intrigo internazionale, smentito dal Partito di Duio sciita e ignorato da Israele, è rivelato da Almalaf, un sito iracheno che racconta di averlo appreso da fonti diplomatiche libanesi. Tutto, secondo le gole profonde medio orientali, incomincia venerdì 10 ottobre quando il segretario generale di Hezbollah accusa i primi segni di malessere. Nelle ore successive le sue condizioni si deteriorano velocemente. Sabato è già allarme rosso. Le terapie appaiono inutili, le condizioni si aggravano e i sospetti di grave avvelenamento trovano piena conferma. I medici libanesi del Partito di Dio ammettono di aver a che fare con un aggressivo chimico di origine sconosciuta e di non conoscere l’antidoto. L’intervento degli amici iraniani è fulmineo. Un team di 15 medici selezionati dai servizi segreti s’imbarca su un aereo militare e vola a Beirut.
Alle 11 di domenica mattina sono già al capezzale del grande malato allestito in una delle cliniche segrete gestite dal movimento. Le prime diagnosi non inducono all’ottimismo. Il team sanitario teme di non aver i mezzi adatti per reagire all’aggressivo e propone di trasportare il paziente a Teheran. A quel punto, i collaboratori di Nasrallah e i responsabili dell’intelligence iraniana affrontano concretamente il problema successione. Mentre i medici tentano il miracolo, il Consiglio esecutivo del Partito di Dio si riunisce in seduta d’emergenza per identificare un possibile sostituto.
Lunedì mattina il paziente incomincia a reagire alle cure, ma a Teheran il quotidiano Khourshid ha già il nome dell’erede da sottoporre per l’obbligatoria approvazione alla Suprema Guida Ali Khamenei. «Hashem Safi al Din – scrive il quotidiano – è stato designato ad assumere il ruolo di Segretario generale nel caso i sionisti assassinassero Nasrallah». Secondo il quotidiano «la designazione rientra nell’ambito della guerra psicologica al nemico sionista e serve ad evitare un indebolimento della Resistenza in caso d’uccisione di un dirigente ». Notizia e spiegazione appaiono assolutamente estemporanee al momento della pubblicazione, ma assumono tutt’altra valenza alla luce delle rivelazioni di Almalaf.
L’attentato alla vita del segretario generale, otto mesi dopo l’eliminazione del comandante militare Imad Mughniye, rischia d’incrinare l’immagine efficienza dell’organizzazione e di mettere in serio imbarazzo i suoi capi. I dirigenti di Hezbollah preferiscono dunque smentire tutto. «È una bugia, completamente inventata» – dichiara il deputato del Partito di Dio Al Hajj Hassan, ma aggiunge una frase in cui molti leggono incertezza. «Anche se non lo vedo da una settimana - ammette Al Hajj – penso stia bene».
L’esistenza di un progetto del Mossad per l’eliminazione del capo di Hebollah è difficilmente negabile. La grande caccia, iniziata allo scoppio della guerra del 2006 ha ripreso nuovo vigore non appena è risultata certa la morte dei due militari fatti rapire da Nasrallah alla vigilia del conflitto. Del resto per gli israeliani non sarebbe la prima volta. Il Mossad ricorse al veleno già nel 1997 per tentare d’assassinare Khaled Meshaal, il leader di Hamas a quel tempo in esilio in Giordania. Il caso creò uno scandalo internazionale e si concluse con la consegna dell’antidoto in cambio del rilascio di due agenti del Mossad catturati dai giordani. Le voci di un possibile riuscito avvelenamento del defunto presidente palestinese Yasser Arafat non sono invece mai state confermate da fonti mediche indipendenti.

Un articolo di R.A. Segre sul diario recuperato di Ilan Ramon, primo astronauta israeliano, morto sullo shuttle esploso nel 2003.
Ecco il testo:


Il 10 febbraio 2003 un funerale di stato ebbe luogo al cimitero militare di Nahalal , uno dei primi villaggi ebraici nella valle di Yezrael. Non lontano dalla tomba di Moshe Dayan, accanto al feretro avvolto nella bandiera nazionale c’erano una giovane donna, il premier Ariel Sharon con l’intero governo e lo Stato maggiore dell’esercito. Ma nel paese più loquace del mondo, la tv non era presente. Così aveva chiesto Rona, la moglie del colonnello Ilan Ramon, l’astronauta israeliano scomparso nell’etere assieme a sei altri membri della navicella Columbia, a 60 chilometri e a 16 minuti di volo dalla terra il 1° febbraio di quell’anno. La sua famiglia non aveva voluto fare di lui un idolo o un martire ma semplicemente un esempio di come si deve vivere e, se necessario, morire per il proprio Paese.
Ilan Ramon era nato in Israele nel 1954. La madre e la nonna erano due sopravvissute dei campi di sterminio. Sposato con quattro figli, come comandante di una squadriglia di caccia, aveva partecipato nel 1981 alla distruzione della centrale atomica in costruzione nei pressi di Bagdad. L’invito della Nasa nel 1998 a partecipare alla missione della Columbia aveva influito sul suo carattere. Senza essere religioso quel viaggio nello spazio lo voleva fare come ebreo più che come israeliano, sentendosi «in dovere di rappresentare l’intero popolo ebraico». Per questo si era portato nella tuta, microfilmata in un chip, l’intera Bibbia. Ma l’osservanza della tradizione ebraica nello spazio poneva problemi per i quali si era rivolto alle massime autorità religiose. Ad esempio come santificare il sabato nell’etere dove i giorni durano soltanto 90 minuti, con 80 esperimenti scientifici da portare a termine. Tutto questo aveva annotato, assieme a pensieri rivolti alla moglie e ai figli, in un diario che aveva portato con sé assieme al disegno di un bimbo che guardava la luna fatto da un ragazzo di 14 anni morto ad Auschwitz di nome Peter Ginz. Un astronomo ceco, Jaha Ticha aveva dato il suo nome a un piccolo astro da lui scoperto. Per Ilan Ramon era diventato il simbolo della memoria ebraica. Ne aveva parlato al figlio Assaf, oggi cadetto d’aviazione israeliana cui aveva scritto prima di partire: «Assaf, mio primogenito. Ogni notte guarda al cielo e pensa a me che gli giro attorno. Un poco lontano ma vicino col cuore. Ti amo. Mi manchi. Prendi cura di te stesso di tua madre e dei tuoi fratelli».
Premonizione di quanto sarebbe successo? Forse. Ma non avrebbe certo mai immaginato che quelle pagine di diario, 37 in tutto, ritrovate in parte bruciacchiate da uno scout indiano fra i frammenti della navicella sparsi sul territorio della contea di San Antonio nell’Arizona, nei pressi di una cittadina di nome Palestine, sarebbero diventate un cimelio nazionale, recentemente esposto al museo di Gerusalemme.
La polizia israeliana, dopo un anno di lavoro e con l’aiuto di sofisticati strumenti, ha ricostruito 17 pagine di questo diario piovuto dal cielo. Coincidenze incredibili. Leggibili sono fra l’altro le righe vergate a mano dal colonnello che contengono la benedizione sul vino per santificare il sabato. Miracolo? Il Talmud dichiara di non «fare affidamento ai miracoli». Nel testo biblico tuttavia Dio dice più volte agli ebrei «voi avete visto». Una frase senza punto di domanda. Una constatazione. Dei miracoli? No. Dei portenti - come l’uscita d’Egitto, la manna nel deserto, la rivelazione della Legge ecc. - a cui l’ebreo deve guardare non come spettatore ma sempre come partecipe. Forse è anche questo il significato di questo «portento» moderno venuto dallo spazio.
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