In un articolo pubblicato dal MANIFESTO del 22 ottobre 2008 Michele Nani si sforza di negare che l'esistenza e la rilevanza di un'antisemitismo di sinistra.
Per farlo deve ovviamente ricorrere a interpretazioni contorte, che rischiano di suonare come giustificazioni.
Scrive per esempio:
"Sin dall'antichità il conflitto sociale urbano si è manifestato anche nelle forme dell'attacco agli ebrei. Si è così depositata una sorta di memoria sociale, che insiste, ad esempio, sul nesso fra ebrei e denaro".
Non può negare, naturalmente che "nel lungo Ottocento, la presenza di stereotipi in seno al movimento dei lavoratori è indubitabile, così come sono innegabili casi di uso politico dell'antisemitismo da parte di dirigenti e intellettuali socialisti", ma minimizza, affermando in termini generici che
"in gran parte del movimento di massa quella tentazione fu respinta e gli stereotipi e le polemiche non determinarono le linee dell'azione di sindacati, cooperative, associazioni e partiti. Queste organizzazioni, peraltro, reclutavano spesso membri e dirigenti di origine ebraica e in molti contesti erano le uniche ad aprirsi a loro e a difenderli dall'antisemitismo".
Complessivamente l'articolo di Nani appare come un'espressione del rifiuto della sinistra a fare i conti con se stessa in materia di antisemitismo e razzismo, in nome di un'autoproclamata immunità da queste degenerazioni che contrasta con la storia, e con la cronaca dell'odio antisionista, che altro non è se non una forma di antisemitismo mascherato.
Ecco il testo:
Presso alcuni settori del mondo politico e culturale si va facendo strada una nuova interpretazione delle origini storiche dell'antisemitismo moderno. Parafrasando un celebre scritto di Lenin sulle matrici culturali del marxismo, si potrebbe sintetizzare questa rappresentazione nell'accostamento di «tre fonti» dell'antisemitismo. La cooperazione e infine la sintesi di queste «tre parti integranti» avrebbero reso possibile la radicalizzazione novecentesca, fino alla tentata distruzione nazista degli ebrei d'Europa nel corso della Seconda guerra mondiale. Due di queste «fonti» sono state ampiamente studiate e sono ben note anche al pubblico più ampio. La prima è il «nuovo» antisemitismo ottocentesco, che insiste sulla caratterizzazione razziale degli ebrei e si colloca nel quadro delle trasformazioni del nazionalismo. La fortuna del termine stesso «antisemitismo» si deve alla pubblicazione nel 1879 di un opuscolo di Wilhelm Marr e alla sua diffusione in un contesto socialmente e politicamente ricettivo come quello dell'Impero tedesco, agitato da veri movimenti antiebraici. Cliché duri a morire La seconda «parte integrante» dell'antisemitismo moderno è legata all'esperienza storica delle chiese cristiane europee. Senza la tradizione religiosa antiebraica non si sarebbe prodotto e riprodotto il secolare retaggio di stereotipi e interdizioni. Si pensi alla reiterazione quotidiana delle formule liturgiche antigiudaiche, alle infamanti accuse di omicidio di bambini cristiani a scopo rituale, all'istituzione dei «ghetti», cioè alla segregazione fisica delle comunità ebraiche in ben ristrette porzioni delle città europee fra Cinque e Ottocento (a tale proposito può essere utile ricordare che l'ultimo ghetto a essere smantellato, nel 1870 ad opera delle nuove autorità italiane, fu quello di Roma: ricordare solo i soldati pontifici che difesero la città dall'irruzione dei bersaglieri, come è accaduto lo scorso 20 settembre, significa anche ritenere secondario questo dato storico). Grazie ai più recenti studi, fra i quali si segnalano quelli di Giovanni Miccoli, oggi non si considera l'antiebraismo cristiano alla stregua di uno sfondo agli sviluppi più recenti e non si insiste sulla presunta cesura fra patrimonio religioso antigiudaico e razzismo antisemita secolare. Si leggono invece gli sviluppi delle mentalità e delle pratiche antiebraiche nella costante interazione fra lascito storico e nuove forme, una dinamica sociale nella quale furono impegnati, nel corso dell'Ottocento, diversi agenti, tanto le autorità statali, gli intellettuali e le nuove forme della politica di massa, quanto le chiese e i movimenti religiosi. In quella dinamica di riproduzione degli stereotipi e di promozione di azioni antisemite oggi si tende a inserire anche il contributo del movimento operaio e della cultura socialista, marxismo compreso. Tuttavia il fondamento storico dell'inclusione di questa terza «fonte» resta malcerto. Sin dall'antichità il conflitto sociale urbano si è manifestato anche nelle forme dell'attacco agli ebrei. Si è così depositata una sorta di memoria sociale, che insiste, ad esempio, sul nesso fra ebrei e denaro. La dimensione economica, secondo la lezione di Karl Polanyi, non è isolabile dal contesto: e infatti quella forma del conflitto è stata sollecitata o avallata dalle autorità politiche e religiose, e si è intrecciata ad altre dimensioni, si pensi ad esempio alle robuste radici cristiane della polemica contro l'usura e al recupero del tema biblico dell'idolatria del «vitello d'oro». In età contemporanea, le organizzazioni delle classi subalterne hanno subito a più riprese la tentazione di far uso di questa memoria, specie per quel che riguarda la diffusa identificazione fra ebrei, alta borghesia e mondo finanziario (basti pensare alle figure mitizzate dei Rothschild). Per inciso su quel tenace stereotipo pesò una singolare distorsione, presente anche in Marx e in molti marxismi, come ha mostrato Enzo Traverso in un libro fondamentale e purtroppo mai tradotto. L'equivoco fu forse agevolato dalla visibilità sociale degli ebrei borghesi in Europa occidentale (visibilità in buona parte prodotta dalla polemica antiebraica vecchia e nuova), ma era soprattutto figlio dell'ignoranza delle concrete condizioni sociali di milioni di poveri e poverissimi ebrei dell'Europa centrale e orientale. Vecchi e nuovi pregiudizi L'esempio più rilevante è quello degli ebrei confinati nelle aree speciali dell'Impero russo e vessati dai pogrom, al centro di un fondamentale lavoro di Jonathan Frankel: avrebbero dato vita, organizzati nel Bund, a un forte movimento operaio nelle terre dello zar, ma anche, una volta emigrati, a organizzazioni di classe negli Stati Uniti e agli insediamenti sionisti in Palestina. Nel lungo Ottocento, la presenza di stereotipi in seno al movimento dei lavoratori è indubitabile, così come sono innegabili casi di uso politico dell'antisemitismo da parte di dirigenti e intellettuali socialisti. Allo stesso tempo, tuttavia, in gran parte del movimento di massa quella tentazione fu respinta e gli stereotipi e le polemiche non determinarono le linee dell'azione di sindacati, cooperative, associazioni e partiti. Queste organizzazioni, peraltro, reclutavano spesso membri e dirigenti di origine ebraica e in molti contesti erano le uniche ad aprirsi a loro e a difenderli dall'antisemitismo. L'universalismo socialista ebbe senz'altro dei limiti (di genere, eurocentrici, assimilazionisti...) e tuttavia, in linea di principio e nella pratica concreta, fu assai più coerente di quelli illuministico e liberale. Farne una terza «fonte» dell'antisemitismo significa dimenticare la differenza fondamentale fra un universalismo imperfetto e le ben più escludenti culture religiose e nazionalistiche, che veicolavano apertamente l'odio verso gli ebrei e ne facevano un pilastro della propria politica. Il movimento operaio talora guardò all'antisemitismo come «socialismo degli imbecilli», primo e rozzo stadio di una protesta sociale destinata a convertirsi in forme più «mature». Anche per questo si potrebbe imputare al socialismo di non aver compreso fino in fondo la forza sociale degli agenti politici del razzismo, proprio per l'uso spregiudicato di vecchi e nuovi pregiudizi ai quali i subalterni non erano insensibili: ma così forse lo storico assumerebbe troppo frettolosamente le vesti del giudice e del militante, dimenticando che quei limiti erano allora generalizzati e, ancora, che pesano sul nostro presente, nonostante Auschwitz e nonostante un secolo di critica femminista e anticoloniale. La questione centrale non sta dunque nel merito della presenza di elementi antiebraici nella cultura delle classi subalterne e delle loro organizzazioni, ma nella misura: è lecito porre un movimento di emancipazione collettiva come quello operaio e socialista su un piano in qualche modo paritetico rispetto alle chiese, al nazionalismo, alle comunicazioni di massa, agli Stati europei nella genesi dell'antisemitismo contemporaneo? La storiografia ha insistito sull'esistenza di una «tradizione antisemita» nel socialismo moderno, basandosi soprattutto sull'elaborazione ideologica (Edmund Silberner), oppure sulle condizioni sociali e politiche che ne favorirono lo sviluppo in determinati contesti, come l'area tedesca (Robert Wistrich), ma non ha presentato il movimento operaio come una matrice originale e influente dell'antiebraismo contemporaneo. In tutti casi, ha segnalato l'articolazione degli atteggiamenti socialisti, condizionati da una pluralità di elementi, non ultimo dalle forme della presenza ebraica nei movimenti operai, un tema studiato a livello globale (Nancy Green), europeo (Karin Hofmeester) e nei singoli casi, come quello statunitense (Hadassa Kosack, Tony Michels). Il caso italiano, invece, salvo qualche importante eccezione (su tutti alcuni studi di Alberto Cavaglion), non ha ricevuto molta attenzione, nonostante il peso del movimento operaio nella storia nazionale, una storia che ha prodotto il razzismo fascista e la collaborazione alla Shoah. Forse si può spiegare questa disattenzione con argomenti consueti, come la ridotta dimensione delle comunità ebraiche, il lungo quasi-monopolio della polemica antiebraica da parte dei cattolici e poi dei fascisti, l'integrazione degli ebrei emancipati nell'Italia liberale e repubblicana. Viene ora a colmare qualche lacuna una ricerca promossa dalla Fondazione Modigliani sulla stampa socialista, che ha trovato una prima concretizzazione in una raccolta di studi curata da Mario Toscano (Ebraismo, sionismo e antisemitismo nella stampa socialista italiana. Dalla fine dell'Ottocento agli anni sessanta, Marsilio). Merito dei contributi di Filomena Del Regno, Luca La Rovere e Alessandra Tarquini è l'approccio «filologico» e di lungo periodo al problema, che dissolve senz'altro la scorciatoia interpretativa dell'«antisemitismo socialista». Dallo spoglio del quotidiano «Avanti!» e dei periodici «Critica sociale» e «Mondo operaio» emerge innanzitutto una notevole attenzione ai mondi ebraici, anche e forse soprattutto a quelli del resto d'Europa, che si concretizza in oltre cinquemila articoli - e spiace che tale importante sforzo, con la costruzione di un database, brevemente descritto da Maria G. D'Amore, non abbia trovato già in questa sede elaborazioni e analisi statistiche. La pedagogia della memoria Fra Otto e Novecento le prese di posizione dei socialisti italiani sulla «questione ebraica» riecheggiano quelle europee. Non hanno originalità teorica e non sono prive di risvolti stereotipi (che emergono ad esempio nella prima fase del caso Dreyfus), ma sono ferme nella condanna dell'antisemitismo e forse anche per questo suscitano l'interesse di molti ebrei. Il fascismo segna una vera catastrofe per il movimento operaio, e una più netta differenziazione fra le sue componenti interne (che risaliva alle fratture sul 1917), ma la stampa socialista in esilio offre alcuni contributi all'analisi dell'antisemitismo di regime (notevole quello di Guido Lodovico Luzzatto), per quanto in genere lo ritenga un tributo all'alleato tedesco, un'interpretazione destinata a informare a lungo anche la storiografia. Nel dopoguerra, al di là dell'invalsa convinzione su silenzi e rimozioni, i socialisti danno vita a una prima pedagogia della memoria della deportazione e dello sterminio, riconoscono le ragioni dello Stato di Israele (ne celebrano la modernità e il socialismo, rivedendo la diffidenza verso il sionismo), stabiliscono un solido rapporto con la comunità ebraica italiana, nel segno dell'antifascismo. Le differenze restano, con gli estremi delle posizioni più compiutamente socialdemocratiche e di quelle della sinistra (Bosio, Fortini e Basso). Col tempo maturerà anche una sensibilità per le condizioni degli ebrei sotto il «socialismo reale» e per la stessa questione palestinese. C'è da augurarsi che a questa prima messa a punto seguano nuove indagini: l'uscita di un altro libro collettivo, promosso dall'Istituto Saranz di Trieste (Le carte dei Weiss. Una famiglia tra ebraismo e impegno politico, La Mongolfiera, con saggi di Adriano Andri, Tullia Catalan, Simona Urso e Ariella Verrocchio) lascia ben sperare. Mentre procede l'affondo «filologico» e biografico, si potrebbero mettere in relazione le posizioni delle diverse anime della sinistra (anarchici, repubblicani, comunisti), senza limitarsi alla politica, ma esaminando anche sindacati e altre associazioni. Il rapporto fra socialismo e «questione ebraica» andrebbe anche studiato in quanto storia di gruppi sociali, delle loro relazioni e rappresentazioni reciproche (ad esempio fra dirigenti e militanti, fra ebrei socialisti e non, fra intellettuali e politica, fra socialisti italiani ed europei), in un quadro ove rapporti di potere, conflitti interni, logiche specifiche di singoli ambiti, continuità e rotture nelle tradizioni culturali possono rendere conto, meglio delle etichette sull'«antisemitismo socialista» o «di sinistra», degli usi degli stereotipi, dei comportamenti concreti e delle lotte e aspirazioni comuni.
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