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La Stampa Rassegna Stampa
21.10.2008 Reportage da Hebron
ma uno sguardo troppo unilaterale non aiuta a capire davvero

Testata: La Stampa
Data: 21 ottobre 2008
Pagina: 14
Autore: Francesca Paci
Titolo: «“Israeliani state attenti questa è un'altra Gaza»
"Per capire come funzioni la convivenza" tra arabi ed ebrei a Hebron, sostiene Francesca Paci su La STAMPA del 21 ottobre 2008, "basta alzare gli occhi: la rete tirata da un lato all’altro della strada trattiene lattine e frutta gettata dalle finestre che diffondono i cori di sukkot, la festa dei tabernacoli. Un tubo rovescia sui passanti lo scarico del bagno".

Forse, per capire davvero, bisognerebbe anche ricordare gli ebrei uccisi a Hebron dal terrorismo palestinese e, prima, dai pogrom del 29 e del 36.

Hamas dovrebbe essere descritta per quello che è, ovvero come una sanguinaria organizzazione terroristica, e non come l'opposto speculare degli ebrei "estremisti" che non vogliono cedere la Cisgiordania. Questi ultimi, quale che sia il giudizio sulle loro posizioni politiche, non sono terroristi.

Ecco il testo dell'articolo:



Assad Abu Munshar fuma una Jamal seduto davanti alla porta della sua bottega, una delle poche spalancate lungo al Shalaleh street, il tratto finale del suq, l’antico mercato di Hebron al centro della zona H2, quella controllata dagli israeliani. «Le Nazioni Unite ci danno 200 dollari al mese per restare aperti, ma clienti niente», dice Assad, 88 anni, 9 figli, una famiglia di 48 persone. Per la spesa di Ramadan ha chiesto un prestito di mille shekel, circa 200 euro. Impossibile trovare un acquirente per le teiere arrugginite e i mangianastri gonfi d’umidità che ammuffiscono sugli scaffali sbilenchi. Il negozio è stato chiuso 26 mesi durante la seconda intifada, 80 mila dollari di danni secondo l’Hebron Rehabilitation Committee. Non si è mai ripreso. In compenso, continua Assad, «gli affari degli inquilini del secondo piano vanno benone». Un paio di metri sopra l’insegna un doppio giro di cavalli di frisia protegge gli insediamenti ebraici di Beit Hadassa e Ha Shisha dove vivono 600 coloni irriducibili, barricati qui da quando, dieci anni fa, il premier Netanyahu cedette la città all’Autorità Nazionale Palestinese. Per capire come funzioni la convivenza basta alzare gli occhi: la rete tirata da un lato all’altro della strada trattiene lattine e frutta gettata dalle finestre che diffondono i cori di sukkot, la festa dei tabernacoli. Un tubo rovescia sui passanti lo scarico del bagno.
Hebron è la più grande città della Cisgiordania, nota per i vetri raffinati. Dal 1997 è divisa in due: la zona H1, dove vivono 130 mila palestinesi, e la H2, «lo Stato apartheid», come lo chiama lo storico israeliano Zeev Sternell, con 34 mila palestinesi, 600 coloni ebrei, 1500 militari israeliani e 76 posti di blocco.
«Da alcune settimane la situazione si è aggravata», ammette Ahmed, mercante di ceramiche all’inizio di Shuada Street, fino al 2000 arteria principale della città vecchia e oggi teatro di scontri quotidiani. Basta aspettare qualche minuto, il tempo che Noam, kippà e pantaloni bianchi da cui spunta una pistola M5, incroci due adolescenti palestinesi affatto disposti a cedere il passo. Sullo sfondo la sagoma imponente della moschea al Ibrahimi, lo stesso maestoso edificio che gli ebrei chiamano Ma’arat Ha-machpela, la grotta dei Patriarchi, il luogo dove entrambi, separati da pesanti sbarre, pregano sulla tomba di Abramo.
«Siamo tutti in trincea», continua Ahmed. Coloni contro palestinesi tra i vicoli scoscesi e sulle colline punteggiate di ulivi. Coloni contro militari israeliani, rei, grida Noam al blindato con la stella di David, di servire uno Stato che «cede al nemico la terra di Dio». Palestinesi di Hamas, che gode dell’80 per cento dei consensi, contro i fratelli l’Autorità Nazionale del presidente Abu Mazen, il cui mandato scade a gennaio. Una sassaiola incrociata che non risparmia neppure le vetture «peacekeepers» della Tiph, la missione di osservazione internazionale di cui fa parte una squadra di carabinieri italiani. «Hebron è un caso unico, il feudo di Hamas. La legge di Dio qui conta più della politica», spiega l’analista Idhin Tamini.
Nawal Akram ripone le sciarpe tessute a mano dalle donne della cooperativa Jaffa nel negozio alla fine del mercato della frutta e aspetta il marito che viene a prenderla ogni sera: «Sono l’unica donna, gli altri commercianti non mi vogliono. La mentalità è tradizionale e l’occupazione israeliana amplifica la chiusura». Laurea in scienze dell’educazione, 42 anni, 2 bimbi, Nawal è un’eccezione tra le coetanee che ne hanno almeno sei.
«Hamas ha grandi infrastrutture - continua Tamini -. Nonostante dall’inizio di ottobre le forze di sicurezza comandate da Ramallah abbiano chiuso parecchie associazioni caritatevoli e arrestato 30 persone, il sostegno ai più bisognosi continua sotto banco». Secondo il Comitato internazionale della Croce Rossa (Icrc) l’86,7 per cento dei palestinesi della H2 vive sotto la soglia di povertà e si arrangia con 2 euro al giorno. Uno su 4 conta sulla razione mensile dell’Icrc, farina, olio, zucchero, tonno.
«La crisi finanziaria inasprirà la situazione nei territori palestinesi dove, a scapito della pace, torneranno fame e disoccupazione», osserva Gil Feiler, direttore dell’Istituto di ricerca economica del Medioriente di Herzlyia. Molti considerano Hebron il laboratorio della terza intifada, il termometro delle tensioni in Cisgiordania. La settimana scorsa, quando gli agenti dell’Autorità Palestinese hanno denunciato agli israeliani il tunnel scavato sotto il check point di Tarqumia accusando Hamas, Hebron ha temuto la guerra civile. «A chi serve un tunnel così?», si chiede Idhin Tamini. «Hebron non è Gaza, il mercato è pieno di armi illegali». Un cielo cupo attende, a giorni, l’arrivo dei 700 nuovi poliziotti di Fatah addestrati in Giordania dagli americani.
«La collaborazione con la sicurezza palestinese è un successo», giura Peter Lerner, portavoce dell’amministrazione civile israeliana. Il vecchio Assad spegne l’ultima sigaretta e incatena la bottega, nella città dei vetri in frantumi non si sa mai.

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