Riprendiamo da FORMICHE.net, la video-intervista di Roberto Arditti a Fiamma Nirenstein dal titolo: "A che punto siamo in Medio Oriente. Intervista a Fiamma Nirenstein".
(Video a cura di Giorgio Pavoncello)
Intervista a tutto campo a Fiamma Nirenstein di Roberto Arditti, a partire dal suo ultimo libro: "La guerra antisemita contro l'Occidente". Le radici dell'antisemitismo e perché l'aggressione contro il popolo ebraico in Israele è un attacco a tutto campo contro la civiltà occidentale. E una sconfitta di Israele segnerebbe anche la nostra fine.
Vietato piangere gli oppositori del regime degli ayatollah da "Il mio Iran" di Shirin Ebadi
Testata: Corriere della Sera Data: 20 ottobre 2008 Pagina: 29 Autore: Shirin Ebadi Titolo: «Iran, i morti si piangono solo a casa»
Dal CORRIERE della SERA del 20 ottobre 2008, uno stralcio del nuovo libro di Shirin Ebadi, "Il mio Iran", edito in Italia da Sperling e Kupfer:
«Aspettami qui, torno tra poco» dissi all'autista della macchina a noleggio. Controllai nello specchietto retrovisore che il foulard coprisse bene i capelli, ma non avevo di che preoccuparmi: era incollato alla fronte dal caldo. Appena scesa dall'auto, l'aria torrida del deserto di Khavaran mi investì come il morso di una fornace. Era pieno agosto, l'afa, insostenibile. Per un attimo fui tentata di ritornare dentro, nell'abbraccio artificiale dell'aria condizionata. No, non potevo, inutile pensarci. Sistemai meglio la borsetta sulla spalla e mi avviai con passo spedito. Passando accanto alle vecchie tombe hindu e bahai, mi avvicinai alla folla che si stava radunando. Le fosse comuni, probabilmente. Una distesa informe di erba e terriccio, senza neppure una recinzione. I corpi di migliaia di oppositori politici, caduti sotto i colpi dei pasdaran, erano stati ammassati lì, uno sull'altro come spighe falciate. Non meritavano neppure un funerale o una sepoltura in un cimitero musulmano. Zedd-e enghelab, controrivoluzionari. «Nessuna cerimonia. Forse vi faremo sapere dove si trova il corpo ». Solo questo si sentivano dire le famiglie dei condannati. La morte si scopriva dopo settimane, mesi di silenzio, incertezza, assenza. Con Javad era stato così. Ero lì per lui. Da molti anni avevo smesso di capirlo, ma non sarebbe mai uscito dal mio cuore. Lui e tutta la nostra generazione violata, dilaniata da mezzo secolo di ideologie in lotta per il dominio sul mio Paese. La nobile Persia, lo sventurato Iran. In quel giorno senza respiro ero lì per Javad, da cui mi aveva separato la storia. E per Parì, Abbas, Alì e tutti gli altri. Per ricomporre gli anni di incomprensione e lontananza, cancellare le parole di odio e ritrovarne altre, quelle della nostra antica amicizia. Mi unii al nutrito gruppo di donne. Arrivavano lente come una migrazione, da ogni parte, madri, mogli e sorelle che stringevano in mano un garofano o una rosa rossa. Erano diverse in tutto, ma avevano tutte lo sguardo fiero e senza lacrime. I morti come questi si piangono solo a casa. Riconobbi, al centro, la donna che chiamavano la Madre, la portavoce del loro dolore. Si muoveva a fatica in mezzo alla folla. Sotto il foulard si intravedevano i capelli bianchi e radi. Settant'anni, forse. Suo figlio, un ingegnere che aveva studiato in America, era sepolto da qualche parte a Khavaran. La Madre alzò lentamente il braccio e prese la parola. Il brusio cessò. «Oggi siamo qui per ricordare. Lo sappiamo bene che il sangue non si lava con il sangue. Siamo donne, non guerriglieri. Mogli e madri e figlie e sorelle che hanno già visto fin troppa violenza. Uccidere gli assassini non riporta a casa le vittime...». «Taci miscredente! Non erano vittime, ma traditori, zedd-e enghelab, e dovevano morire!» La voce risuonò nell'aria tesa sopra le nostre teste. Cercai con gli occhi la donna che aveva parlato. Era avvolta da capo a piedi in un chador nero. Vidi che eravamo circondati da donne e uomini del goruh-e feshar. Le forze che attaccavano e disperdevano le manifestazioni erano pronte a entrare in azione ancora una volta. Ci stringemmo in cerca di protezione, spalla contro spalla, incerti sul da farsi. Mi tornarono in mente le parole di mia madre mentre uscivo di casa: «Shirin joon, cara, non andare, è pericoloso». Mi attraversò la mente il pensiero che forse, l'anno prossimo, sarebbe toccato a lei ricordare sua figlia sulle sabbie insanguinate di Khavaran. Come obbedendo a un tacito ordine, il goruh-e feshar estrasse catene e coltelli. Stavano per colpire. Intorno solo silenzio e l'odore compatto della nostra paura. Si lanciarono all'attacco della cerchia più esterna. La folla sbandò. Le donne correvano in ogni direzione, schivando calci e pugni. I pochi uomini furono immediatamente raggiunti dai lebas-shakhsi, gli agenti in borghese. Colpivano alla schiena con manganelli e intanto ringhiavano: «Così finalmente la smetterete con queste adunate da traditori. I vostri figli non meritano nessuna cerimonia. Erano nemici di Allah e dell'Iran. Dovevate pensarci prima e trasmettere loro i giusti valori. È colpa vostra se sono morti!». E trascinavano via le loro vittime semisvenute, bagnando la sabbia con sottili rivoli di sangue. Quasi tutte le persone a terra avevano i capelli bianchi. Una delle donne in chador, che lanciava pietre contro la Madre, riuscì a colpirla in fronte. Alla vista del sangue, come impazzita, proseguì più in fretta, una gragnola fitta di colpi, come se non le bastassero tutte le pietre del deserto. Alcune compagne la imitarono. La Madre restava immobile. I sassi fischiavano intorno al suo corpo diritto. «Vigliacche» mormorava, gli occhi fissi. Neppure io riuscivo a muovere un passo, come paralizzata da quella scena di una violenza irreale. Una donna mi strattonò scappando: non saprò mai se abbia voluto aiutarmi o solo scansarmi, in ogni caso mi risvegliò da quella sorta di ipnosi. Presi a correre anch'io, dietro quella sconosciuta. Vedevo confusamente volti di donne accasciate, sentivo il suono metallico delle catene, l'odore metallico del sangue. La Madre ora gridava: «Vigliacche! », ma era sempre più lontana. Inciampai in una radice, caddi, mi rialzai. Finire travolta e calpestata era un attimo. O essere colpita, in quella mischia che confondeva amici e nemici. Il cuore mi era salito in gola, rimbombava nel cervello e copriva ogni pensiero. Correvo, con la gola secca e senza più fiato. Un uomo mi afferrò per il braccio e ciecamente mi voltai per sferrargli un calcio. «Signora Ebadi, sono io.» Era l'autista. Mi trascinò in macchina quasi di peso e partì a tutta velocità. Priva di forze, mi asciugai il sudore che mi pungeva gli occhi e cercai di calmarmi. Sentendo per la prima volta freddo, abbassai gli occhi e mi accorsi che nella fuga avevo perso una scarpa. Sollevai il piede su un ginocchio, la pianta era graffiata e perdeva sangue. Guardai cadere una goccia densa sul tappetino dell'auto, e solo allora avvertii il bruciore delle ferite.
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