Mentre lo scenario politico israeliano presenta un'ampia convergenza verso posizioni di grande disponibilità e flessibilità diplomatica (si veda sul GIORNO del 20 ottobre 2008 l'articolo di Giovanni Bianchi "Anche Barak apre al piano saudita", a pagina 19) il vero terreno nel quale si gioca il futuro della pace è quello della propaganda e dell'educazione delle nuove generazioni.
Un'"educazione" all'odio e alla violenza, quale è quella che fin dall'infanzia viene impartita ai palestinesi non potrà che perpetuare il conflitto.
Si tratta di un problema centrale, cui raramente i media italiani si interessano.
Fa eccezione PANORAMA del 17 ottobre 2008, da cui riportiamo un'inchiesta di Giovanni Porzio sulla propaganda diffusa da Hamas (e in parte anche dall'Autorità palestinese).
Ecco il testo:
Una collina di sabbia e cespugli riarsi alla periferia di Khan Younis, Striscia di Gaza. Fino all’estate 2005 era una delle 17 colonie ebraiche di Gush Katif, smantellate per ordine di Ariel Sharon. Ora è uno dei campi di addestramento dei Comitati di resistenza popolare, le milizie che dall’inizio della seconda intifada raggruppano le formazioni armate palestinesi.
Le macerie dell’insediamento israeliano sono un percorso di guerra ideale per gli «shebab» della Brigata Salah ad-Din, che in tuta mimetica e volto coperto da un passamontagna nero imparano a maneggiare kalashnikov e lanciarazzi: strisciano nei solchi lasciati dai carri armati, passano carponi sotto rotoli di filo spinato, sparano su quanto resta delle serre e delle case demolite. Dicono tutti di avere 16 anni. Ma tra di loro ci sono anche bambini che recitano la lezione imparata a memoria: «Voglio distruggere Israele», «Quando sarò grande combatterò per cacciare gli occupanti che hanno rubato la nostra infanzia», «Il mio sogno è vendicare mio padre e mio fratello».
Il corso di guerriglia comprende tattiche di attacco e difesa, fabbricazione di ordigni esplosivi e rapimento di soldati nemici. «Approfittiamo dell’attuale tregua per preparare i giovani allo scontro» dice un istruttore. «I missili israeliani non fanno distinzione tra adulti e bambini. E allora anche i bambini sono mujahiddin».
I campi di addestramento per i minorenni sono l’inquietante risvolto di una campagna di indottrinamento che Hamas ha intensificato dopo il golpe del giugno 2007, quando il movimento integralista ha espulso dalla Striscia le milizie di Al-Fatah fedeli al presidente Mahmud Abbas. Come in tutte le guerre, anche nel conflitto arabo-israeliano le armi della disinformazione e della propaganda sono ampiamente utilizzate per creare consenso nell’opinione pubblica e demonizzare l’avversario. Ma a Gaza il potere assoluto che Hamas esercita in scuole, università, moschee e media sta plasmando una nuova generazione del rifiuto e della guerra a oltranza, una cultura refrattaria a qualsiasi ipotesi di dialogo e di compromesso.
Nelle moschee e nelle madrase, come nei discorsi dei rabbini ultraortodossi, l’uso politico della religione è sistematico. Nei sermoni del venerdì gli imam citano a profusione il Corano per instillare l’odio nei confronti degli ebrei. Le radio e i siti internet esaltano le gesta dei kamikaze ed elogiano il martirio. I giornali insultano i «traditori» che negoziano con Israele e Stati Uniti. E i video di Al-Aqsa, la tv di Hamas, predicano la jihad fino alla liberazione di tutta la Palestina e all’annientamento dell’«entità sionista».
Il più seguito programma per bambini, I pionieri di domani, è condotto da Saraa Barhoumi, 12 anni, che ospita in studio una serie di pupazzi. La serie del topolino Farfour, che esortava a combattere Israele in nome dell’Islam, è stata abolita l’anno scorso, dopo le proteste degli stessi genitori palestinesi. Non prima, però, che Farfour fosse assassinato da uno «sporco agente israeliano».
Il topolino è stato sostituito dall’ape Nahoul che, gravemente malata, è morta a causa del blocco della Striscia di Gaza. La nuova star è il coniglio Assud, che giura di «mangiare tutti gli ebrei, se Dio vuole», e di essere pronto al sacrificio.
«Questa propaganda di morte rivolta ai bambini ha gravi conseguenze sociali» afferma Iyad Saraj, psichiatra, fondatore della Commissione palestinese indipendente per i diritti civili e responsabile dei centri per la salute mentale a Gaza. «Ma la cultura della guerra è il prodotto di decenni di occupazione militare, di bombardamenti, di distruzioni. Da bambini, invece che a indiani e cowboy, giocavamo ad arabi ed ebrei: invece di piantare il seme della pace gli israeliani hanno coltivato la pianta dell’odio. Non c’è da stupirsi se la dittatura di Hamas, come ogni dittatura, usa argomenti razzisti per giustificare la violenza e si serve della propaganda per il lavaggio dei cervelli».
Lo zio della piccola Saraa, Fawzi Barhoumi, è il portavoce di Hamas e riceve Panorama all’interno di una moschea. «Forse abbiamo commesso alcuni errori» ammette. «C’è un comitato che controlla i programmi della tv: non riconosciamo lo stato di Israele, ma non siamo contro gli ebrei. Però i pupazzi di mia nipote esprimono i sentimenti e la rabbia della gente: uomini e donne che hanno perso il padre, la madre, i fratelli. I miei figli devono sapere che l’occupazione è un crimine».
Al terzo piano di una palazzina nel centro di Gaza, Majid Jundiyah sta completando il montaggio del primo film a soggetto prodotto da Hamas. Titolo: Imad Aql, il fondatore delle Brigate Ezzedin al-Qassam, ucciso da un commando israeliano nel ’93. La sceneggiatura è di Mahmud Zahar, il leader di Hamas nella Striscia. Sul monitor scorrono le immagini: la vita nel campo profughi di Jabaliya, i rastrellamenti, le torture, i soldati che sparano sui ragazzini disarmati, le imprese eroiche del giovane Imad.
«La propaganda è necessaria» afferma Ahmad Yousef, consigliere politico del capo del governo di Hamas Ismail Haniye, «per preparare i giovani alla resistenza. In ogni caso non possiamo competere con la potente e sofisticata macchina propagandistica israeliana».
In Cisgiordania televisioni e giornali controllati dall’Autorità palestinese usano un linguaggio più moderato. Anche se Ruham Nimri, responsabile del monitoraggio dei media palestinesi per Miftah (l’iniziativa per la promozione del dialogo e della democrazia sostenuta da Ue e Onu), non risparmia critiche: mancanza di professionalità, autocensura, sudditanza al potere politico, terminologia impropria. «Qualche progresso è stato fatto. Però è scandaloso continuare a chiamare martiri i terroristi che uccidono i civili israeliani».
Intervista Parla Itamar Marcus, il colono a capo dell’organizzazione che da 11 anni analizza programmi e libri di testo che insegnano l’odio ai bambini palestinesi. «Europa e Stati Uniti diano aiuti all’Anp soltanto se cambia l’educazione».
Sempre da PANORAMA, un'intervista di Marina Gersony a Itamar Marcus, direttore di Palestinian media watch (Pmw)
http://www.pmw.org.il/
Dimmi i nomi di tre paesi che confinano con lo stato della Palestina» chiede una graziosa ragazza in collegamento telefonico con il piccolo Muhammad. «Facile» risponde il bambino «Libano, Giordania ed Egitto». E ancora: «Come si chiama l’unico mare di acqua dolce in Palestina»? «Lago di Tiberiade» afferma sicuro Ayyam. È uno dei più recenti quiz per bambini in onda sulla televisione dell’Autorità nazionale palestinese. Ma di programmi simili, che prendono di mira Israele, gli ebrei e l’Occidente, ce ne sono diversi. A partire dai videoclip che usano simboli universali come Winnie The Pooh, Minnie o Topolino a scopi propagandistici. E per promuovere la «shahada», testimonianza con cui il fedele musulmano dichiara di credere in Dio uno e unico e nella missione profetica di Maometto, e il terrorismo suicida.
Il fenomeno è sempre più allarmante secondo l’organizzazione Palestinian media watch (Pmw), fondata nel 1996, che controlla i media e i libri di testo palestinesi in arabo e analizza la società palestinese in relazione al terrorismo e all’Islam radicale. Il fondatore e direttore Itamar Marcus vive a Efrat, un insediamento israeliano poco distante da Gerusalemme, dove gli abitanti sono in prevalenza sionisti religiosi, ma ci sono anche moderni ortodossi emigrati dagli Stati Uniti.
Che cosa avete scoperto in 11 anni di monitoraggio?
C’è un evidente sforzo della dirigenza palestinese di insegnare ai bambini un odio tremendo verso Israele, verso gli ebrei e verso l’Occidente in generale. Di recente un loro leader religioso ha dichiarato che Israele li sta avvelenando con droghe o diffondendo intenzionalmente l’aids. Hanno sparso anche voci a proposito di esperimenti medici che Israele avrebbe effettuato sui prigionieri, come i nazisti. Menzogne che sviluppano una società carica di odio.
Cosa si può fare per cambiare la situazione?
Molto. I palestinesi da soli non cambiano. E visto che non sono autonomi politicamente e finanziariamente, prima di dare ulteriori aiuti l’Europa e gli Usa hanno l’obbligo di indirizzare un cambiamento nell’educazione. Se questo sarà fatto ci sarà l’avvio di un cammino verso la pace. Altrimenti sarà un processo solo tecnico e non reale.
Chi controlla i media palestinesi?
La tv palestinese di Al-Fatah è di proprietà dell’Autorità palestinese, controllata dall’ufficio di Mahmud Abbas. Prima era controllata da Yasser Arafat. Se la leadership volesse cambiare i suoi messaggi, potrebbe farlo in 24 ore.
Ci sarà pure qualche programma educativo più neutrale.
In una scuola hanno intitolato un torneo di calcio «Abdel-Basset Odeh championship cup», dal nome di un terrorista suicida che ha ammazzato 31 israeliani qualche anno fa durante le celebrazioni della Pasqua ebraica. Ci sono campi sportivi per ragazze che portano il nome di Wafa Idriss, la prima donna kamikaze. Di recente hanno chiamato un campo Dalal al-Maghrabi, il nome di un terrorista coinvolto nell’uccisione di 37 israeliani nel 1978, il più grave attentato terroristico nella storia di Israele. Così l’Autorità palestinese usa le strutture educative, scolastiche, sportive e perfino i cruciverba per inculcare l’odio nei bambini.
Esistono palestinesi con sentimenti più moderati nei confronti di Israele?
Non ci hanno sempre odiati. Nel 1996, quando l’Autorità palestinese era appena stata riconosciuta dopo 27 anni di amministrazione israeliana in Cisgiordania, fu condotto un sondaggio tra i palestinesi. Dovevano votare il paese con più democrazia e diritti umani nel mondo. Il 78 per cento mise Israele al primo posto. In altre parole, se Israele e la Palestina non avessero più confini, e se i palestinesi vivessero tra gli israeliani e ci vedessero per quello che siamo, ci ammirerebbero come i migliori in fatto di democrazia e diritti umani. Perché tutto quello che vogliamo è il meglio per i nostri vicini palestinesi.
E gli intellettuali palestinesi?
Sfortunatamente non sono molto diversi. Quando parlano con te, affermano cose differenti, usano l’inglese per dire quello che la gente vuole sentirsi dire. Ma tra loro parlano un’altra lingua. Purtroppo è la grande tragedia da queste parti.
Lei è ottimista?
Lo ero e molto. Ma ogni volta che accendo la televisione o apro un libro di scuola palestinese divento sempre più pessimista. Per questo vado a informare i parlamenti di tutto il mondo. Perché la gente sappia come stanno distruggendo la pace.
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