La memoria della persecuzione antiebraica e il rischio del nuovo razzismo Gianfranco Fini alla Sinagoga di Roma, nell'anniversario della razzia del Ghetto
Testata: La Repubblica Data: 17 ottobre 2008 Pagina: 20 Autore: Alessandra Longo Titolo: «Fini in Sinagoga a Roma "C´è un rischio razzismo"»
Da La REPUBBLICA del 17 ottobre 2008:
ROMA - Si sistema la kippah bianca con gesto sicuro, quasi automatico. Gianfranco Fini varca la soglia della Sinagoga di Roma in un clima di grande cordialità. Con lui ci sono il rabbino capo Riccardo Di Segni, il portavoce della comunità ebraica romana Riccardo Pacifici (con il quale da tempo si dà del tu) e il presidente delle comunità ebraiche italiane Renzo Gattegna. Non è la sua prima volta, è già venuto al tempio, ma è la prima volta che lo fa nella veste di presidente della Camera e in un periodo di rigurgiti nostalgici, non estranei al suo mondo politico di provenienza. Non è nemmeno un giorno qualunque ma il 16 ottobre, data che ricorda la deportazione del 1943: 1022 ebrei della capitale furono portati a morire nei campi di sterminio con «la collaborazione attiva» dei fascisti, anche ieri ricordata all´illustre ospite. Risalirono quell´abisso in 15. Quelli ancora vivi sono tutti qui, sono ormai solo quattro, e accolgono Fini con un sorriso. Così come sorridono al «Circolo del 1948», l´organizzazione di base degli ebrei romani. Nel ghetto, dopo la parentesi ufficiale, l´ex ragazzo del Fronte della Gioventù fa una passeggiata, beve un caffè da «Toto» in piazza, si ferma a chiacchierare, ascolta storie di violenza, di morte. «Mi hanno venduto per cinquemila lire», gli dice Mario Limentani, un sopravvissuto. «Cinquemila lire?» «Sì, presidente, cinquemila lire». Si stupisce, si interessa come quando, tra i banchi di legno scuro, aveva chiesto notizie sulla sinagoga: «L´hanno chiusa dopo le leggi razziali?» «No, presidente, fu chiusa, come tutti i luoghi di culto ebraici, dopo l´otto settembre quando cominciò la caccia finale all´ebreo». Ne è passata di acqua sotto i ponti. Il presidente della Camera è a suo agio («L´altra volta mi avete portato lassù, nei vostri uffici... «) ma soprattutto non ha più niente, personalmente, da dimostrare. Sull´antifascismo è stato chiaro («Tutta la destra si deve riconoscere in quei valori»), sulle leggi razziali ha costretto i suoi a dolorose retromarce e precisazioni e anche adesso si affida a «semplici verità storiche»: «Occorre ricordare - dice - che le deportazioni ci furono perché ci furono le leggi razziali del 1938. Occorre ancora una volta sottolineare che quel che successe il 16 ottobre del 1943 a Roma è una tragedia che non riguarda solo gli ebrei ma tutti gli italiani e abbiamo il dovere della memoria». «Ha coraggio», gli riconosce Piero Terracina, il più famoso tra i sopravvissuti, mai tenero con la destra. «Qualche anno fa - ammette Terracina - mi sarei rifiutato di partecipare ad una cerimonia in sua presenza». Peccato solo, come dice Guido Coen, membro del Consiglio della comunità, che «il suo percorso personale non garantisca il percorso di molti altri». In un colloquio a porte chiuse, Di Segni, Pacifici e Gattegna, gli raccontano della loro preoccupazione per «i segnali» che si avvertono nel nostro Paese. Gli consegnano anche un dossier con l´elenco di «siti xenofobi e razzisti», dove si esalta la razza ariana e si fa «merchandising dal sapore negazionista» (In quei siti il presidente della Camera è inserito nell´elenco dei "nemici", ndr). Fini si impegna a vigilare: «Il razzismo, come la xenofobia, è una sorta di mostro che può risorgere in forme e modalità diverse. In Italia ci sono troppe dimostrazioni di ignoranza, paura, avversione». Proprio per questo Pacifici annuncia l´impegno della comunità a favore dei rom: «Abbiamo deciso di intervenire in uno dei campi della capitale, li aiuteremo nel processo di integrazione e metteremo a disposizione il nostro ospedale per vaccinare i bambini e fare attività di prevenzione». Fini approva. Anche sui Rom viaggia da solo, rispetto ai suoi. Gattegna, al momento del congedo, ne tesse le lodi: «Con il presidente i rapporti sono di stima e di amicizia, lo ringraziamo della sua intensa attività tesa a riportare la corretta interpretazione della storia». Se ne va dal tempio, non prima di aver fatto un giro nelle strade del ghetto. Angelo Sermoneta, detto «il Baffone», gli regala una «berakah», targa di benedizione, in inglese ed ebraico, per sua figlia Carolina: «Che le sia di buon augurio, presidente».