Da Il MESSAGGERO del 16 ottobre 2008:
Lo so, quella notte non ho fatto altro che strillare. Sempre. L’intera notte.
Dicono che il pianto di un neonato, quando ti arriva come un’eco lontana da chissà dove, ti rallegra il cuore. Sarà forse perché assomiglia tanto a quello di un agnellino e così riesce a chiudere in un cerchio l’intera natura.
Quella cantilena implorante riporta per incanto gli esseri umani al tempo in cui tutto era caldo e muschiato e la luna non si era ancora mai fatta nera.
Questo però per voi non valeva. Non eravate al di là di una serie di muri in lontananza. Io ero lì davanti a voi in affannosa altalena tra una culla e le vostre braccia esauste.
Eravate commoventi a vedervi nella vostra sfinitezza. Ma io urlavo lo stesso.
Non era colpa mia se eravate tanto giovani e incapaci.
Diciassette anni è un’età che ha grandi margini, ma non va bene per diventare genitori.
Tu Colomba, mia madre, ti portavi ancora dietro l’aria ribelle e un po’ scompigliata da quella adolescente proterva che eri, e tu Angelo, mio padre, facevi un tale sforzo per apparire fiero e sicuro mentre l’infanzia ti trotterella ancora dietro come un cagnolino indisciplinato!
Di me non sapevate proprio cosa fare, e non vi do torto.
Mia nonna Costanza, anche se era ancora arrabbiata con te, Colomba, e con te, Angelo, per quel pasticcio che avevate combinato, ci avrebbe presi in casa, anche se tanto spazio non c’era, e per me forse sarebbe stato meglio.
Ma voi no. Volevate fare gli orgogliosi e vi siete trovati da soli questa specie di stanza d’affitto dove ci siamo sistemati un po’ allo stretto. Siete stati abbastanza bravi però, visto che ve lo pagavate da soli con i soldi che Colomba riusciva a guadagnarsi aiutando una sarta a cucire e Angelo aiutando uno zio con il banchetto ambulante.
Non è che questa stanza mi dispiacesse. Nel suo spazio risicato, in tre ci saremmo potuti stare benissimo, e magari anche dormirci, specie quando fuori cade la pioggia come in quella notte. E’ che voi non sapevate neanche prendermi in braccio e cullarmi.
I vostri gesti, ve lo devo proprio dire, erano goffi e sempre impacciati. Sembravano quelli di quando a scuola cominciavate a scrivere le prime lettere sul foglio (io vi conoscevo anche da allora!) e l’inchiostro si spandeva in tristi macchie slabbrate sul quaderno.
Quanto era diverso quando, di giorno, mia nonna Costanza, anche se ancora un po’ nervosa, correva a darvi una mano! Se arrivava questa mia nonna, tutto cambiava. Le sue braccia erano abituate, solide e morbide, come impastate d’acqua e farina lievitate, e lì in mezzo mi sentivo placido e protetto tale e quale quando scalciavo all’impazzata nella pancia adolescente di Colomba.
Un’altra nonna non c’era. Peccato. Sua madre era morta giovane, e forse per questo Angelo, senza neanche saperlo, in fondo mi voleva.
Aveva il sogno di una famiglia sua, anche se nei primi momenti ha aiutato Colomba a fare dei salti dai muretti, sempre più dall’alto, e dei lavaggi ai piedi sempre più bollenti, sperando che io ci ripensassi e decidessi di tornare fra le ombre.
La madre di Angelo non esisteva più e perciò io non avevo un’altra nonna che vi aiutasse a tenermi con delle mani sicure.
Però, Colomba, io ti ho sentito quando, parlando con la tua amica del cuore, le sussurravi quasi ridendo “non mi prendere per cattiva” perché le avevi appena confidato che ti dispiaceva per Angelo senza mamma, ma per te… un poco insomma di non avere una suocera eri contenta…
Siamo innocentemente crudeli e spietati noi bambini…
Quando siete andati a sposarvi, tu, Colomba, camminavi verso il tempio pestando forte con i piedi sulla terra, non si capiva se per un estremo capriccio infantile o per sottolineare la tua risolutezza. Angelo era più sereno. Solo un po’ smarrito.
Eravate così belli nel groviglio della vostra giovinezza! Colomba dagli occhi verdi “come i laghetti di Cheslon” e Angelo rigoglioso come “un melo fra gli alberi del bosco”.
Il vostro amore faceva davvero dolere l’aria.
Era un giorno difficile, ma quasi per brindare al vostro matrimonio, là fuori nel mondo era successa una buona cosa.
Il Regime, quello che con le sue Leggi aveva portato tanta sventura a noi ebrei (mi ci metto anch’io perché già da tempo ero in corsa verso la vita), il Regime fascista era stato rovesciato. Insomma, proprio in quel giorno di sole pieno era caduto, finito, spazzato via. E così, insieme al vostro matrimonio, tutti festeggiavano allegri il ritorno a una vita libera.
Cantavano e ballavano con un bicchiere in mano, e ballavo anch’io, ben protetto da una veste celestina sulla pancia di sei mesi della mia madre adolescente.
Certo, la guerra restava, ma chissà che presto finisse anche lei, dicevano, magari per festeggiare anche il giorno in cui fosse stato il mio turno di venire alla luce.
Si sarà già capito che da quando mi trovavo nel tenero ventre di mia mamma Colomba io sapevo tutto di voi e del mondo, anche se le parole mi arrivavano non percepite una per una come succede agli esseri umani, ma in una unica intensa onda che un po’ si allungava anche al “dopo”.
Ma nel “dopo” le cose non sono andate bene come tanti speravano. Il regime fascista era caduto, però la guerra incertamente finita era tornata più crudele di prima.
Nelle vostre città ora comandavano le truppe tedesche, anche quelle che avevano come vessillo “morte a tutti gli ebrei”.
Così la mia giovane futura mamma ogni tanto tremava e ogni tanto sperava. E per il mio giovane futuro padre era suppergiù la medesima cosa.
Io, come vi ho spiegato, continuavo a sentire la mia onda anche dopo, quando ormai avevo visto il vostro volto.
Quando noi apriamo gli occhi sul mondo nelle prime settimane, ancora per otto giorni siamo un po’ di qua e un po’ di là, e perciò ancora sappiamo.
E’ con la circoncisione, in quell’ottavo giorno, con il “Patto” stipulato con gli uomini, che compiamo il nostro passo decisivo verso il vostro mondo.
Ecco, in quella notte dei miei appena cinque giorni di vita, ancora io sapevo. Ed era per questo che alzavo il mio grido verso la luna nera.
Mia madre e mio padre quella notte si muovevano sempre più stanchi, incapaci di trovare qualcosa che riuscisse a farmi calmare.
Colomba a un certo punto si è messa a gridare anche lei.
diceva piangendo, .
Angelo cercava di placarla. sussurrava, .
Era una offerta dolce ma inverosimile, visto che non c’era un’altra stanza per rinchiudersi a riposare.
Poi Angelo ha provato a dire , ma Colomba ha risposto no, perché lo aveva già fatto troppe volte quella notte.
Poi ha provato a proporre lei, con la sua voce supplichevole di bambina, e Angelo ha risposto che era impossibile perché il vecchio dottore “il bambino” lo aveva già visitato poche ore prima e lo aveva trovato sicuramente sano.
E così tu, Colomba, mia madre, e tu Angelo, mio padre, avete passato con me tutta quella notte senza poter trovare uno spiraglio per abbandonarsi a una briciola di sonno. Eravate così stanchi e sconfitti!
Mamma, papà, io vi chiedo scusa.
Non è vero che urlavo per punirvi perché con la vostra impacciata giovinezza non eravate capaci di occuparvi di me. Non è stato questo il motivo.
Ho urlato perché sapevo.
Sapevo dei soldati della mattina dopo e sapevo del treno. Sapevo che su quel treno io avrei trovato il termine dei miei cinque giorni di vita nel vostro mondo.
Di voi non riuscivo a percepire niente… l’onda non arrivava a farmi capire di più. Ma eravate così giovani e forti! Pensavo che ce l’avreste fatta e forse, chissà, forse sarà andata davvero così.
Io ho urlato per voi.
Volevo solo che non vi dimenticaste di me.
Tutto qui.
Scusatemi se vi ho così tanto disturbato. Non mi era venuto in mente null’altro.
Da regalarvi avevo solo il mio grido.
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