Sergio Romano risponde oggi , 12/10/2008, a pag. 33,sul CORRIERE della SERA a due lettori che si interrogano sul numero delle vittime del '900. Esaminiamo la sua risposta per quanto riguarda lo sterminio degli ebrei, che poi è la parte centrale della sua risposta. Romano fornisce cifre contradditorie, a seconda del tempo in cui furono formulate. Ma questo è falsificare la storia, in quanto la cifra di 6 milioni è documentata, come può constatare qualunque persona in buona fede che consulti gli archivi di Yad Vashem a Gerusalemme. Romano fa poi una distinzione tra eliminazione per uccisione e morte nei ghetti per "stenti e malattie", una differenza che soltanto una mente cinica può elaborare, inaccettabile da chiunque abbia una conoscenza anche superficiale di cosa sono stati ghetti e campi di sterminio. Non poteva mancare, per delegittimare la tremenda realtà della Shoà, il richiamo alla tesi, rivoltante, che il genocidio del popolo ebraico da parte del nazismo, serva a coprire la politica israeliana nei confronti dei palestinesi. Visto l'argomento, è lecito affermare che Romano in questa risposta, che si legge provando un senso di vomito, sta dando veramente i numeri. |
Ho letto l'articolo che tratta la questione dei bombardamenti anglo-americani di Dresda del febbraio '45. Dunque, i morti civili non sarebbero più 250 mila ma 18 mila. Se anche fosse vero (cosa di cui, personalmente, dubito), per 60 anni nessuno storico si sarebbe accorto del «leggero divario» delle cifre? Antonio Serena ant_ser@libero.it Ho visto che sono state riviste le cifre sui morti del bombardamento di Dresda del '45, passati da 250 mila a 18 mila. Ma non è revisionismo storico anche questo? Oppure solo questo è lecito? Annamaria Serena annamariaserena@ hotmail.com
Cari lettori Il conto delle vittime del Ventesimo secolo è uno dei più complicati esercizi a cui storici e statistici si siano dedicati nel corso degli ultimi anni. Due guerre mondiali, una lunga sequenza di guerre civili, alcuni genocidi, fenomeni di repressione su grande scala, migliaia di campi di concentramento e milioni di persone espulse dalle regioni in cui abitavano, hanno formato oggetto di studi e ricerche non sempre impeccabilmente scientifici. Per consentirci di valutare l'attendibilità di un calcolo, lo scrittore di storia del Novecento dovrebbe dire ai lettori con precisione quali siano i confini concettuali dell'evento preso in considerazione, quale sia esattamente il periodo esaminato e quali siano le cause di morte che giustificano la definizione di vittima. Non è facile separare i morti russi della Grande guerra da quelli della rivoluzione bolscevica. Non è facile distinguere i caduti di una guerra civile da quelli che dovettero soccombere ai disagi, alle privazioni, alle carestie, alle epidemie. Non è sempre facile stabilire se la mortalità dei bambini e dei vecchi durante un conflitto debba essere interamente attribuita all'avvenimento o considerata, almeno in parte, naturale. L'autore, anche se libero da motivazioni ideologiche, cede molto spesso alla retorica dell'«arrotondamento» e dichiara la cifra che maggiormente corrisponde alla sua tesi o alle sue personali emozioni. Esistono tuttavia siti in cui vengono diligentemente comparati i diversi calcoli e ogni cifra è seguita dal nome dello storico che l'ha adottata. Risulta così che l'avvenimento su cui sembra esservi una maggiore convergenza di vedute è la Prima guerra mondiale: 15 milioni di morti di cui 8 milioni e mezzo di militari. Ma anche in questo caso vi sono, a seconda dell'autore, alcune discrepanze. I morti delle forze armate italiane, per esempio, vanno da 460.000 a 600.00. I calcoli diventano molto più difficili quando occorre misurare le vittime del comunismo in Urss e in Cina, della Seconda guerra mondiale, dei molti genocidi o «democidi» (un neologismo di cui il redattore del sito si serve per definire i massacri di minoranze) e delle brutali espulsioni in massa da territori occupati o annessi. Tutti sono più meno d'accordo sul fatto che la Seconda guerra mondiale abbia provocato 50 milioni di morti. Ma esistono variazioni che dipendono spesso dai metodi di calcolo. Per il genocidio ebraico, ad esempio, le cifre vanno da circa quattro milioni e duecentomila nel 1953, a 4.800.000 verso la fine degli anni Settanta e ai 6 milioni comunemente citati più recentemente. Ma la differenza è spiegata in parte dal fatto che la cifra maggiore include probabilmente anche gli ebrei morti nei ghetti di stenti e malattie (circa 800.000). Alla difficoltà dei calcoli si è aggiunto l'uso strumentale dei numeri, soprattutto nell'ultimo decennio. L'importanza crescente del genocidio ebraico nel dibattito pubblico e il modo in cui è stato evocato per giustificare la politica israeliana nella questione palestinese, hanno creato una sorta di corsa alla memoria in cui molti gruppi nazionali, etnici o religiosi hanno rivendicato il diritto di essere riconosciuti e rispettati. È questa la ragione per cui le cifre si sono gradualmente gonfiate. Bisognerebbe correggere le esagerazioni e ridimensionare i numeri, ma chiunque osi togliere qualche zero rischia di passare per negazionista, e la formula più diplomaticamente sicura, quindi, è quella di accettare che ogni gruppo fissi unilateralmente la cifra dei propri morti. Ecco perché la ricerca degli storici tedeschi sulle vittime di Dresda, di cui ha parlato Danilo Taino sul Corriere, mi sembra uno straordinario esempio di correttezza, imparzialità e buon senso. Speriamo che altri, d'ora in poi, cerchino di imitarlo.
|