Chi non è d'accordo con me è un fondamentalista la logica di Marco D'Eramo sul voto ebraico negli Stati Uniti
Testata: Il Manifesto Data: 10 ottobre 2008 Pagina: 9 Autore: Marco D'Eramo Titolo: «Per chi voterà Jeovah?»
Marco D'Eramo, inviato del MANIFESTO negli Stati Uniti, spera in una vittoria elettorale di Barack Obama. Legittimo. Peccato che D'Eramo non conceda altrattanta legittimità alle opinioni di chi non la pensa come lui. Gli ebrei americani che non voteranno per Obama, in particolare, per D'Eramo sono dei "fondamentalisti" e dei fanatici. In realtà, è proprio questo il modo di pensare dei fanatici: chiunque non sia d'accordo con me è un pericoloso estremista, o un farabutto.
Di seguito, l'articolo, pubblicato dal quotidiano comunista il 10 ottobre.
Sarah Silverman è una Sabina Guzzanti americana, ma più famosa (e nessuno la censura o la porta in tribunale). 37enne, attrice, cantante, chitarrista, scrittrice di testi satirici, ha uno show settimanale tutto suo in tv sul Comedy Channel. Nel 2007 ha vinto l'Emmy per la canzone «Ho scopato Matt Damon», in cui confessava al fidanzato questo tradimento. Ebrea fino all'osso, sfotte spesso i fondamentalisti ebraici. Ora ha lanciato uno sketch, finanziato dal Jewish Council for Education and Research e scaricabile da YouTube, che s'intitola «Il grande schlep». Schlep è un termine yiddish entrato nel linguaggio americano, significa «fare un viaggio noioso». Sarah invita tutti i giovani ebrei progessisti ad andare in Florida a convincere i nonni a votare per Barack Obama, superare le diffidenze che crea loro un candidato che porta come secondo nome «Hussein». E a minacciarli che non li visiteranno più se voteranno per John McCain. Perché tra Barack Obama e la Casa bianca si frappone ancora un problema ebraico, di cui discute anche un ampio articolo nell'ultimo numero del mensile Harper's. A prima vista non dovrebbe esserci problema: gli ebrei Usa sono 2 a 1 a favore di Obama. Ma nel 1968, quando Richard Nixon vinse su Hubert Humphrey, gli ebrei avevano votato per il democratico Humphrey 5 a 1. E avevano votato 4 a 1 per Al Gore, e 3 a 1 per Bill Clinton e John Kerry. A Los Angeles il mio repubblicano preferito, Allan Hoffenbaum, gay ed ebreo, mitiga questa visione: «Nel 2000 solo il 22% degli ebrei votò per Bush, e io ero tra questi. Ma allora era candidato democratico alla vicepresidenza un ebreo assai filo-Israele, Joe Lieberman. Tanto che nel 2004 Kerry perse la Florida con un margine ben maggiore» mi dice al telefono. Il senatore del Connecticut Lieberman si candidò insieme ad Al Gore ma ora è un transfuga e ha appoggiato John McCain alla Convention repubblicana. Eppure... Passare da un fattore 3 a 1 a un fattore 2 a 1 significa perdere in Florida (dove vivono mezzo milione di ebrei, per lo più anziani e pensionati) almeno 50.000 voti in uno stato che nel 2000 fu perso da Al Gore per poche centinaia di schede. Un minor voto ebraico potrebbe far perdere a Obama anche la Pennsylvania (altro stato decisivo), in cui il 5 % della popolazione è ebrea. Se queste percentuali si mantenessero inalterate, Obama perderebbe quasi lo 0,5% del voto generale, visto che gli ebrei costituiscono il 2 % della popolazione, ma il 4 % dell'elettorato. Infatti, se è vero che una schiacciante maggioranza degli ebrei americani è liberal e diffidente verso i conservatori cristiani (i quali hanno una lunga storia di antiebraismo, prima di convertirsi di colpo all'antiarabismo sionista), è anche vero che è assai importante la componente tradizionalista, conservatrice. Anzi, la comunità ebraica statunitense tende a «fondamentalizzarsi» perché gli ebrei laici si fondono nella popolazione generale attraverso i matrimoni misti (l'ebraismo viene trasmesso per via matrilineare), mentre chi tiene a rivendicare l'identità ebraica sono i fondamentalisti. Colpisce, entrando a New York nel più grande negozio al mondo di materiale fotografico, B & H, vedere che tutti i commessi sono hasidim con le treccine, il barbone, il gilet nero sulla camicia bianca e la yarmulke in testa. Senza contare che vivono negli Stati uniti più di 500.000 cittadini israeliani. E se gli ebrei Usa erano al 70% contrari alla guerra in Iraq, il 65% sotto i 35 anni sente un grande attaccamento per Israele, anche se una percentuale ancora maggiore non lo ha mai visitato. Interpello Bruce Robbins, professore a Columbia University, filopalestinese, amico del compianto Edward Said. Mi dice che sua madre Lynne vive in Florida e ha ricevuto nella sua e-mail caterve d'immondizia su Obama. Alcuni di questi messaggi - spesso originati nei circoli più oltranzisti di Gerusalemme - diffondono la voce che da piccolo Obama aveva frequentato le madrassas (scuole coraniche) in Indonesia. O che ha prestato un segreto giuramento al Corano. Il sito Jews against Obama («un blog che mette in guardia ebrei e gentili virtuosi sui pericoli di una presidenza Obama») diffonde il «video dell'ex consigliera di Obama sull'invadere Israele», con la spiega: «Samantha Power era uno dei consiglieri di Obama fino a marzo, quando fu sbattuta fuori dall'autobus per aver detto che Hillary Clinton è un mostro. Apparentemente invadere una democrazia occidentale per creare dalle sue viscere un altro stato canaglia terrorista era accettabile per Obama il Musulmano». Altri, più «fattuali», diffondono la foto di Obama che chiacchiera (orrore, orrore!) con il palestinese Edward Said. Altri ancora ricordano la relazione (per altro inaggirabile nel South Side nero di Chicago) con Louis Farrakhan, il leader della Nation of Islam (la setta cui aderì Malcolm X negli anni '60), o i rapporti con il virulento pastore Jeremiah Wright. Oppure ricordano le posizioni filopalestinesi ora messe in sordina. I più moderati lo accusano di aver scelto come consiglieri in politica estera Zbigniew Brzezinski e Robert Malley, ambedue assi impopolari tra i blogger israeliani. Così per mesi, dai pulpiti delle sinagoghe, ogni sabato, migliaia di rabbini americani hanno diffuso lo scetticismo espresso da figure quali Ed Lasky, editore dell'influente rivista online American Thinker, o David Greenfield, vicepresidente della Sephardic Community Federation, o Malcolm Hoenlein, capo della Conference of Presidents of Major American Jewish Organizations (Hoenlein si batte stenuamente per una «Gerusalemme unita»). Va detto che anche se non si chiamasse Hussein, Obama avrebbe lo stesso vita dura con la comunità ebraica per il solo essere nero. La diffidenza tra i due gruppi ha storia antica: un tempo gli ebrei occupavano nei ghetti neri la posizione dei coreani oggi: erano proprietari di groceries (alimentari e drogherie) e, in quanto tali, odiati quando non facevano credito e tagliavano i viveri ai clienti neri morosi. E, per quanto tra gli attivisti per i diritti civili dei neri vi fossero tanti militanti ebrei, l'attrito tra i due gruppi fu una delle cause che contribuì alla mancata confluenza tra il movimento nero e il movimento pacifista contro la guerra in Vietnam, a stragrande maggioranza bianca. Gli studenti ebrei che nel 1968 occupavano Columbia university subivano l'ostilità del circostante ghetto di Harlem. La diffidenza raggiunse il culmine negli anni '80 quando l'ostilità ebraica fu uno dei fattori che fecero deragliare la candidatura del reverendo Jessie Jackson alla Casa bianca. Non stupisce perciò se il 4 giugno scorso, appena vinta la nomination, Obama sia subito corso alla convention dell'Aipac (American Israel Public Affairs Commettee) per rassicurarli sul suo incondizionato appoggio alla causa d'Israele e di una Gerusalemme unita al suo interno. La stessa scelta come candidato alla vicepresidenza del senatore di lungo corso Joe Biden è motivata in parte dalle posizioni indefettibilmente filo-israelane di Biden. Una parte della comunità ebraica però sta cercando di mettere a frutto la candidatura di Obama per scalzare la vecchia leadership tradizionalista delle varie associazioni e promuovere esponenti che rispecchino il generale progressismo della comunità. Molti di loro hanno preso le difese di Obama: così J.J. Goldberg, direttore editoriale del settimanale The Forward, o lo storico Paul Berman, autore di Blacks and Jews (1994), o il rabbino Michael Lerner, direttore della rivista liberal Tikkun. Le più infamanti insinuazioni su Obama sono state condannate anche da Abraham Foxman, direttore dell' Anti Defamation League, che però per anni ha assimilato a «razzismo antisemita» ogni critica alla politica del Likud. Interpello una figura di spicco della sinistra ebraica newyorkese, la studiosa di scienze politiche Frances Fox Piven, che mi sembra più ottimista: «Questo fango sparso su Obama, l'insinuazione che è musulmano, può avere un effetto sugli ebrei anziani, più tradizionalisti, e può anche far rivivere l'ostilità che si era esacerbata negli anni '80. Ma io credo che la schiacciante maggioranza del voto ebraico andrà a Obama». Due fattori giocano a favore del candidato democratico. Il primo è la candidatura repubblicana alla vicepresidenza della governatrice dell'Alaska Sarah Palin. Come mi ha detto l'opinionista Marc Cooper, «Palin è il contrario antropologico della cultura ebraica: è cristiana fino all'osso, è rurale mentre loro sono cittadini, è anti-intellettualista mentre loro sono d'istruzione alta, rappresenta un mondo agli antipodi di quello ebraico, persino il più conservatore. Non c'è ebreo anziano che possa turarsi il naso fino a votare per Sarah Palin». Il secondo fattore è la crisi economica che si è già mangiata il 20% delle pensioni americane. E quindi anche il 20% delle pensioni degli anziani ebrei newyorkesi migrati in Florida e che ora cominciano a votare più con il portafoglio che con una supposta difesa d'Israele contro un improbabile complotto nero-musulmano.
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