Quaranta e li dimostra, seconda puntata 09/10/2008
A febbraio occupa la scena mediorientale Yasser Arafat, che al Congresso nazionale di tutte le sigle palestinesi riunite al Cairo viene eletto Presidente dell’OLP, l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina. Arafat, nato al Cairo da famiglia egiziana, era stato a capo della sola organizzazione maggioritaria palestinese, al-Fatah, fino dagli anni Cinquanta, ma ora consacra il suo potere anche sulle organizzazioni minori che compongono la minigalassia armata e terroristica palestinese. Abilissimo politico, Arafat riuscirà con tutti i mezzi a far parlare il mondo intero del problema palestinese. Quali siano soprattutto questi mezzi è presto detto, e con una parola sola: terrorismo, una piaga che si allargherà a macchia d’olio come una epidemia di violenza medievalista per colpire obiettivi anche molto lontani da Israele. Arafat diventerà capo dell’ANP, l’Autorità Nazionale Palestinese, dal 1996 fino alla sua morte nel 2004. In Italia a febbraio si svolge il XII Congresso del PCI., che non può ignorare la contestazione studentesca (che anche qui da noi, come in Francia, coinvolge le fabbriche), ma non riesce a interpretarla. Non si accorge che il metro marxista-leninista per capire il mutamento in atto in Italia e in tutta Europa si avvia ad andare in frantumi e occorrono nuove “medicine” (leggi nuove idee) per capire e regolare il passo. Se ne accorge una pattuglia di giovani comunisti legati ad un settimanale, “Il Manifesto”, che intraprende un impari duello con i vecchi dirigenti. Finiranno espulsi dal partitoa novembre. Ma nel PCI le crepe diventano numerose. L’11 giugno il vice-segretario Enrico Berlinguer (Segretario è Longo) rappresenta il partito italiano alla Conferenza dei partiti comunisti che si svolge a Mosca. Il suo intervento, assai duro contro l’invasione sovietica in Cecoslovacchia, segna un primo distacco dall’URSS, tanto più sentito a Mosca quando Berlinguer non firma la risoluzione di condanna del PC cinese, reo di leso marxismo-leninismo. Tuttavia il cammino del principale partito italiano della sinistra sulla strada del “revisionismo” sarà ancora lungo. Il 1969 vede ora una maggiore e più sconvolgente lacerazione nel mondo comunista. A marzo si spara ai confini tra URSS e Cina, lungo i fiumi dell’Ussuri e dell’Amur. Dati i regimi totalitari dei due paesi le informazioni escono con il contagocce, ma i fatti demografici e geografici parlano e spiegano. Il territorio sovietico al di qua dei due fiumi è immenso e quasi disabitato, mentre al di là premono masse cinesi che anelano a occupare quegli spazi vuoti e coltivabili. Dall’altra parte del globo si respira un’altra aria. Gli americani, e il mondo intero, festeggiano il 21 luglio Neil Armstrong, il primo astronauta degli Stati Uniti a mettere piede sulla luna. Una giornata comprensibilmente memorabile che contribuisce a fare del 1968 l’anno di demarcazione tra un “prima” e un “dopo”. Un’altra vicenda, forse altrettanto memorabile ma su un piano assai diverso, si svolge ancora negli USA, ed è il gigantesco festival di musica pop che vede dal 15 al 17 agosto centinaia di migliaia di giovani (forse 7 o 800mila) accorrere a Woodstock per trascorrervi tre giorni e tre notti. Non è soltanto musica, è la consacrazione musicale della parte sana della rivoluzione “sessantottina” dei giovani, è il realizzarsi – sia pure solo per la durata del festival – di un sogno collettivo, è la forteaffermazione di una speranza, quasi un grido di religiosità libera e laica. E a rompere altri schemi, ecco apparire un libro che suscita scandalo. E’ “Il lamento di Portnoy” di uno scrittore emergente. Ha 36 anni ed è Philip Roth (la letteratura contemporanea è ricca di diversi “Roth”, tutti di grande valore e, come Philip, tutti ebrei). Pagine scabrose anche perché suscitano reazioni di vario segno nel mondo ebraico. L’establishment ebraico americano non è tenero con Philip Roth, accusato di “judische selbsthasse”, odio ebraico di sé. Ma Roth diventerà uno dei maggiori scrittori del Novecento (e oltre). Torniamo nel Mediterraneo. In Libia un “Consiglio della rivoluzione” destituisce il re Idris I e con un golpe il 26 agosto s’impadronisce del potere. Il “Consiglio” è guidato de un giovane capitano (ha 27 anni), uscito dalle scuole militari d’Inghilterra, che si promuove colonnello e s’insedia sulla poltrona di Idris.. E’ Muammar al-Gheddafi, che subito proclama la “Repubblica araba di Libia”, abbandona la politica moderata e sostanzialmente filo-occidentale di re Idris per partecipare alla corsa dell’odio di una parte consistente del mondo islamico. Nel suo mirino c’è anche l’Italia, che però dalla Libia ha qualche cosa da farsi perdonare. E Gheddafi non ha il perdono facile o gratuito. A loro volta saranno gli ebrei che vivevano in Libia a maturare qualche credito nei confronti del rais di Tripoli, che li caccerà dal paese dopo averli depredati. Ancora l’Africa è scena di delitti. A giugno in Biafra, la provincia secessionista della Nigeria dieci tecnici dell’ENI sono assassinati e altri undici catturati: saranno liberati, non si sa a quale prezzo, sei giorni dopo. Dall’Africa di nuovo in Medio Oriente. Un Medio Oriente che è perennemente inquieto, è anzi proprio l’epicentro dell’inquietudine. Il conflitto arabo-israeliano, non ancora diventato materia di fanatismo teologico islamico, è al momento sopito, ma gli scambi di artiglieria da una parte e dall’altra del Canale di Suez sono quotidiani. E quasi ogni giorno la stampa italiana parla di “aggravamento” della tensione, più o meno velatamente accusando Israele di essere la causa prima di quell’aggravamento. Scrive ad esempio Raniero La Valle su “La Stampa” del 4/6 aprile che” l’intransigenza israeliana mette in crisi i regimi arabi he sarebbero ancora disponibili a soluzioni negoziate. Di qui il prevalere presso gli arabi dell’alternativa della guerriglia, che è alternativa disperata”. Su “L’Espresso” del 20 aprile scrive invece Antonio Gambino che il più grave ostacolo ad ogni ricerca di pace “è rappresentato dall’ideologia sionista, la quale ha come suo cardine fondamentale la speranza di poter accogliere in Palestina tutti gli ebrei sparsi per il mondo”. Il suicidio d’Israele sarebbe un buon contributo alla pace. Quanto meno la sua scomparsa toglierebbe il disturbo. Poi è venuto il 1970. Luciano Tas levitas@alice.it