Testata: Il Foglio Data: 07 ottobre 2008 Pagina: 3 Autore: la redazione Titolo: «Karzai dialoga con i talebani, Petraeus fa i conti della guerra»
Da Il FOGLIO del 7 ottobre 2008:
Il negoziato alla Mecca (e a Londra) Il negoziato tra governo afghano e talebani – ormai in corso – è diventato ancora più urgente, per i suoi sostenitori, al termine di una campagna estiva che ha visto le forze jihadiste intensificare le azioni militari e terroristiche e i militari afghani con gli alleati allargare le operazioni a molte aree ritenute santuari talebani soprattutto lungo (e oltre) il confine con il Pakistan. Questa campagna non ha prodotto vittorie schiaccianti ma soltanto successi tattici per le truppe dell’Isaf e di Enduring Freedom che affiancano le ancora deboli truppe di Kabul. Questo dialogo è ancor più comprensibile dal punto di vista del presidente Hamid Karzai, che punta a farsi rieleggere alle elezioni previste per aprile 2009: torna a giocare la carta dell’accordo di pace almeno con una parte della galassia talebana cercando un successo politico che compensi la mancata vittoria militare e allontani le critiche di corruzione e inefficienza rivolte da più parti al suo governo e le ultime rivelazioni circa le attività di narcotrafficante del fratello, Ahmed Wali, che guida il Consiglio provinciale di Kandahar. La settimana scorsa Karzai ha chiesto al mullah Omar di “fare ritorno in patria” e mettere fine al conflitto, garantendo personalmente la sua incolumità. Un’iniziativa alla quale il leader talebano ha risposto ignorando la proposta per rivolgersi ai contingenti alleati ai quali il mullah ha promesso “l’incolumità se lasceranno l’Afghanistan” e “una sconfitta come quella subita dai sovietici se persisteranno nell’invasione dell’Afghanistan”. Secondo quanto riferito dalla Cnn, che ha raccolto indiscrezioni a Riad, alcuni rappresentanti del governo di Kabul avrebbero incontrato alla Mecca esponenti dei gruppi talebani e del movimento Hezb i Islami di Gulbuddin Hekmatyar tra il 24 e il 27 settembre. Nell’incontro, mediato e organizzato dopo una lunga preparazione dal sovrano saudita Abdullah, sarebbe emersa la convinzione comune di negoziare la fine del conflitto: i talebani avrebbero garantito per conto del mullah Omar che il movimento non ha più legami con al Qaida. Un elemento quest’ultimo indispensabile per cercare di ottenere il supporto di Washington alle trattative, ma che viene smentito dai report provenienti dai campi di battaglia dove miliziani afghani e stranieri combattono fianco a fianco. Gli Stati Uniti restano scettici di fronte all’ipotesi di negoziati con i talebani che finora si sono sempre rifiutati di trattare finché permarranno forze straniere in territorio afghano. Questa posizione non è condivisa dai britannici, che l’anno scorso sono arrivati ai ferri corti con statunitensi e governo afghano proprio per aver trattato con alcuni capi talebani locali della provincia di Helmand per conquistare la roccaforte jihadista di Musa Qala. A ribadire la posizioneCarleton-Smith, comandante delle forze di Londra nella provincia di Helmand, che in un’intervista al Sunday Times ha sgomberato il campo da ogni illusione di “decisiva vittoria militare” considerando come ipotesi migliore la riduzione delle azioni talebane “a un livello gestibile” dalle sole forze di Kabul. “Se i talebani fossero pronti a sedersi dall’altra parte di un tavolo e a discutere un accordo politico – ha dichiarato Carleton-Smith – sarebbe il tipo di progresso che pone termine a ribellioni come questa”. Un’ipotesi che, almeno ufficialmente, è stata respinta da un portavoce talebano che nega di poter negoziare con “gli invasori”. Dopo la fuga di notizie su un memorandum nel quale un diplomatico francese riportava le critiche alla “fallimentare” strategia alleata in Afghanistan formulate da Sir Sherard Cowper-Coles, ambasciatore britannico a Kabul, altre indiscrezioni riprese dalla stampa britannica riferiscono di un’iniziativa del servizio segreto britannico MI6, che avrebbe addirittura portato a Londra per colloqui un emissario talebano. britannica ha provveduto il generale Mark I comandi fanno il budget Di fronte al proliferare di indiscrezioni il portavoce della Nato, James Appathurai, ha annunciato che l’alleanza non ostacolerà il dialogo che il presidente afghano Hamid Karzai vuole avviare con i “talebani moderati” ma il segretario generale, Jaap De Hoop Scheffer, ha fatto sapere che al prossimo vertice di Budapest spronerà i partner a inviare più truppe e mezzi in Afghanistan per “vincere la guerra”. Una posizione simile a quella statunitense evidenziata in questi giorni dai generali David Petraeus e David McKiernan. Il primo, che a fine ottobre assumerà la guida del Central Command competente sui fronti iracheno e afghano, ha annunciato l’avvio di una campagna invernale per mantenere la pressione sui jihadisti. Il secondo, alla testa delle truppe di Isaf ed Enduring Freedom, ha allargato i target delle forze alleate anche ai narcotrafficanti e ha chiesto altre tre brigate da combattimento per contrastare il nemico. I piani militari puntano ad “afghanizzare” il conflitto potenziando l’esercito di Kabul che dovrebbe raddoppiare gli effettivi entro il 2011 passando dagli attuali 74 mila soldati (11 brigate più 2 in costituzione) a 134 mila pur mantenendo gli equilibri etnici che vedono il 40 per cento dei soldati di etnia pashtun, il 38 tagiki, il 14 uzbeki, il 6 hazara mentre il 2 per cento proviene da minoranze diverse. Questo progetto richiederà almeno 17 miliardi di dollari che il Pentagono vorrebbe far sborsare al Giappone (che non ha inviato truppe in Afghanistan) e ai partner della Nato che non schierano forze combattenti. Oltre al denaro per equipaggiare, addestrare e retribuire i militari (gli stipendi vanno dai 90 dollari al mese per un soldato ai 600 per un generale a tre stelle) serviranno anche migliaia di istruttori da affiancare ai reparti afghani non soltanto nei campi scuola m anche nelle operazioni di combattimento. Già ora mancano all’appello tremila consiglieri militari a causa della riluttanza di molti paesi a portare in prima linea i propri soldati al fianco delle truppe di Kabul. Riluttanza rafforzatasi dopo che il numero di caduti alleati dall’inizio dell’anno è salito a 223, due in più delle perdite subite in tutto il 2007. I consiglieri militari italiani Nell’ovest afghano il compito di istruire e affiancare l’Afghan National Army è sostenuto dai consiglieri militari italiani degli Omlt (Operational Mentor and Liasion Team) che operano insieme ai 3.500 militari afghani del 207° Corpo d’armata: quattro battaglioni assegnati a due brigate una delle quali appena costituita. Gli italiani schierano a Camp Stone, vicino all’aeroporto di Herat, quattro team con 108 esperti guidati dal colonnello Gianluca Giovannini ma il contributo nazionale è destinato a subire un forte incremento nel 2009 quando i team saliranno a sette. I “mentor” militari italiani sono inseriti a ogni livello nelle forze afghane, dai comandi fino ai “kandak”, i battaglioni che hanno combattuto i talebani a Farah, Shindand e nell’area al momento più calda del settore ovest, a Bala Murghab. I militari dell’Ana non mancano di coraggio visto che affrontano il nemico armati di AK-47, mitragliatrici e Rpg muovendosi sulle strade a bordo di pickup civili scoperti e privi di protezione. Mine, Ied e imboscate talebane hanno ucciso quest’anno già più di mille militari e poliziotti afghani, un numero circa uguale a quello delle vittime civili. La situazione degli equipaggiamenti dovrebbe però migliorare presto con la distribuzione di elmetti in kevlar e giubbotti antiproiettile e alcuni veicoli Hummer ex americani. I report degli Omlt consentono di evidenziare luci e ombre dell’Ana. Le prime riguardano il coraggio dei soldati, la presenza di ottimi comandanti a medio livello, la crescente professionalizzazione e l’elevato supporto di cui godono i militari presso la popolazione. Le difficoltà riguardano invece l’insufficienza delle forze, l’analfabetismo, la corruzione, l’incapacità di gestione, management e logistica. Per questo i corsi di formazione gestiti dai consiglieri militari italiani vertono su temi operativi e organizzativi quali la lotta agli ordigni esplosivi improvvisati, il processo decisionale militare, le operazioni, l’intelligence, il management e i corsi di lingua inglese. Lotta agli “ordigni improvvisati” Lo sviluppo di sofisticati sistemi di guerra elettronica per neutralizzare gli ordigni improvvisati, che in Afghanistan costituiscono la principale causa delle perdite militari, è testato in questi giorni nel poligono sardo di Salto di Quirra. L’esercitazione Trial Imperial Hammer, organizzata dal Sigint Electronic Warfare Working Group della Nato, vede la presenza di 15 Paesi e dieci agenzie dell’Alleanza atlantica con l’impiego di 1.300 militari, 800 dei quali italiani per testare nuove tecnologie in grado di neutralizzare le azioni dinamitarde terroristiche. Il Reparto supporto tecnico operativo guerra elettronica (Restoge) dell’Aeronautica militare italiana ha messo a punto il prototipo di un apparato jammer in grado di contrastare le emissioni dei radiocomandi che attivano gli ordigni monitorando tutte le radiofrequenze, discernendo nello spazio di millisecondi quelle amiche dalle nemiche, che vengono soppresse. Il collaudo contro trappole esplosive preparate dai genieri della brigata Sassari ha avuto esito positivo. Testati in un contesto di simulazione operativa anche due nuovi mini Uav, piccoli velivoli teleguidati “armati” di telecamere utili per sorvegliare strade o postazioni fisse allo scopo di prevenire azioni terroristiche o imboscate. Lo statunitense Matrix, realizzato in fibra di carbonio, pesa poco più di un chilogrammo, vola a 50 chilometri orari per alcune ore in un raggio di dieci chilometri fino a un’altezza massima di cinquemila metri. Più grande, con un’apertura alare di tre metri e un peso di sei chilogrammi, lo Strix realizzato dalla italiana Alpi Aviation e collaudato dal 32° Stormo dell’Aeronautica che già impiega in Afghanistan i grandi UAV Predator. Velivolo monoala, lo Strix è quasi invisibile e può trasmettere le immagini da dodici chilometri di distanza a una stazione portatile a terra che è in grado di rilanciarle ovunque.
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