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Si dice che la guerra “è terrorismo” -, e si aggiunge quando va bene (per farsi perdonare?) che “il terrorismo è terrorismo”. E’ proprio la goffa identità fra soggetto e predicato (senza che nemmeno vi sia una differenza sottintesa) quanto fa cadere il fine del “discorso”. Tale controcircuito logico nasconde la circostanza molto “semplice” per cui – nella vera realtà – “la guerra è una risposta che si appronta contro il terrorismo”.
Quest’ultimo innesca un circolo vizioso, dove normalmente la risposta viene a conformarsi alla stessa provocazione - come avviene in quegli atroci duelli elettronici, quando la velocità brucia, e si gioca col rialzo e da ultimo con l’abisso del ribasso.
Del resto, anche se chi ha reagito all’attacco terroristico fosse così saggio da immaginare una strategia parallela che dissuadesse le popolazioni dall’interno, la cementata cerbera caparbietà e la mortifera pertinacia dei terroristi quali “perdenti radicali” a tutto disposti riassorbirebbe ogni sforzo nel proprio buco nero.
Non dimenticare, dunque, che navigando in così torbide acque mai potremo svincolarci da un circolo come codesto infernale.
Converrebbe piuttosto chiedersi perché fin dal tempo remoto ci sia stata impedita dai piccoli demagoghi “rivoluzionari professionali” qualunque riflessione riguardante il presunto “nemico”, quello che un’insana smania nel far piangere i genitori ci aveva fatto bersagliare come fonte di ogni male – visto che il passaggio alla folla berciante s’imponeva come condizione imprescindibile per essere accettati dal branco.
Ma perché dunque gli usa (iu-es-ei) dovrebbero farla sempre da nemici così perversi, se a conti fatti non sarà certo un capitalismo in irreversibile declino a insidiare le fonti della rigenerazione, se non appunto nei correnti giri d’affari che ormai si consumano presso le periferie che sbavano petrolio? E perché insistere con la logica degli ossessi nell’insulto perenne all’America, quando poi si scopre che l’antiamericanismo è la merce più diffusa proprio fra coloro che più si sono americanizzati e sguazzano nelle celesti prospettive di nordamericani orizzonti? E perché continuare con tali fissazioni stile fotocopia infinitamente replicata (le quali, come si sa, riproducono la monotona e rabbiosissima filastrocca inculcataci nel tempo che Berta filava da qualche stolido capetto nemmeno tanto “estremista”), se comunque ben conosciamo come una qualche rigenerazione non si accentri sul bene o sul male di un’unica fonte caricaturalmente di tutto accusata, bensì sul fiorire di molteplici fonti diverse, nonché come a strangolare questo fiorire sia proprio il circolo vizioso e politicamente corretto che tiene desta la monomania d’un odio qualunquista com’è quello antiamericano?
Gioverebbe sapersi allontanare (saper evadere, con un salutare sforzo della fantasia) dall’infernale circolo nel quale la schiera d’”anime belle” impegnate “per-amor-di-giustizia” in un’opera di perpetuazione propagandistica del controcircuito terrorista vorrebbe perpetuare anche la rigida fissità dei propri deliranti slogan di gioventù, immarcescibilmente riproposti anche dopo il tramonto che li ha consegnati a un passato per nostra fortuna irrecuperabile (se poi non accadesse che proprio la fissazione di tali slogan in una specie di rigidità cadaverica costituisce appunto il fattore “vampiresco” che li fa sopravvivere come i morti che camminano).
In maniera del tutto grezza e primitiva, costoro - quando non peggio - ardirebbero pretendere che si accettasse finanche come completamente scontata o addirittura come ovvia e ragionevolmente “moderata” “l’equiparazione”, l’equazione fra terrorismo islamico-fondamentalista e interventi militari della maggior potenza in zone del mondo tormentate da una deriva che le rende ostaggi delle variabili impazzite gestite dai “perdenti radicali” (definizione di Magnus Enzensberger) – quelli cioè a tutto disposti pur di poter trascinare gli altri entro la loro mistica mortuaria.
Orbene, premetto che non dovrei concedere a simili “equiparazionisti” il privilegio di ricevere una qualche controargomentazione, in quanto per mettere a punto conroargomentazioni occorre pur sempre mobilitare un certo quale sforzo del pensiero, mentre al contrario gli avversari non si sono intellettualmente impegnati né punto né poco, dimostrando di voler attribuire ai propri grezzi slogan e urli da trivio un valore ultimativo (certo: di urli da trivio si tratta – perché appunto questo evoca il modo con cui è stata posta la questione – un modo che fa rivivere i maledetti cortei con gli slogan fanatici e i “cervelli” mandati al macero).
Una volta precisato ciò, la complessità del discorso concernente uno snodo tanto cruciale della politica internazionale comporta si tenga conto che – se da un lato la logica “irachena” porta certamente in sé il pericolo d’interferire sulle cose forzandole fino al punto da esigerle diverse da come sono (senza però con questo minimamente incamminarsi verso una “equiparabilità” col terrorismo – anche se troppo pericolosamente ci si avvicina in tal modo ad una prassi direttamente rivoluzionante, o “rivoluzionaria” che dir si voglia) -, dall’altro lato è urgente, specie dal nostro punto di osservazione in Europa, rendersi coscienti che praticamente da sempre gli Stati Uniti hanno accettato l’egemonia su scala mondiale quasi solamente come il risultato imprevisto e non originariamente voluto di un’azione a cui sono stati spinti da esteriori circostanze (ivi compresa la stessa seconda guerra mondiale), proprio mentre – al contrario – era stato prospettato un ben diverso orizzonte politico, ispirato a un sostanziale isolazionismo. (Questo sia detto, anche “alla faccia” di quei facinorosi sessantottardi, che negli anni settanta non si peritavano di paragonare “l’imperialismo americano” alla sete hitleriana di sanguinaria espansione verso est, cosicché gli USA avrebbero rinverdito “l’antico programma di Hitler: quello di dominare il mondo” – parole testuali di un fanatico di allora, diventato ahinoi professore universitario). Di rinforzo, posso pure rammentare che l’atteggiamento statunitense – forse tutt’altro che immune da pecche macroscopiche (così almeno può sembrare, ma dopo essere stati tanto ingannati nel passato dai capetti comunisti bercianti occorre ben farci la tara!!!) – sconta tuttavia un fondamentale ritardo (che certo non è solo peculiare ma comune a tutti) nel comprendere come ormai una grande potenza sia letteralmente costretta, negli eventi internazionali, a mettere nettamente in secondo piano l’immediatezza dei propri interessi, per seguire qualcosa che – piaccia o no – li trascende sostanzialmente in tutto e per tutto: ormai non basta certo la bismarckiana Machtpolitik, pur con i pesi e contrappesi diplomatici concernenti.
Sono certo che simili argomenti (così come infiniti altri possibili, che potremmo qui addurre) non “convincono” affatto le “menti” anchilosate affette da fanatismo rivoluzionario ottocentesco, “menti” a cui basta un qualunque stupido slogan riguardante il supposto “dovere” di ricercare ad ogni costo un’assoluta uguaglianza fra gli umani (un feticcio, tale uguaglianza, la cui verosimiglianza non si pregiano di dimostrare) per esimersi da ogni “ulteriore” sforzo mentale: gli argomenti sono semmai rivolti a terzi, la cui mente non è ancora stata deturpata. Del resto, codesti improvvidi nipotini di Rousseau non si accorgono di avere un elemento fondamentale, di grandissimo rilievo, in comune con l’odiato nemico “imperialista”: il feticcio della “democrazia”, considerata così com’è come storicamente insuperabile o addirittura eterna e comunque intrascendibile sia dai rivoluzionari “ottocenteschi” sia dai loro mortali nemici americani – al punto da sospendere qualunque capacità di comprensione, considerando come “antidemocratico” (e magari seguace d’una qualche “dittatura”) chiunque consideri la storicità (quindi la non eternità, la fondamentale trascendibilità) della democrazia stessa.
Qui però non sono gli usa l’oggetto della nostra disamina. Nello scorcio che segue, tanto per finire in bellezza, voglio tratteggiare un “lusinghiero” ritratto a tutti coloro che – come il senatore Andreotti – trasfigurano il terrorismo nel “terrorino”. In pochi tratti, alla fine, un ri-tratto dei signori antimperialisti per partito preso.
1. Essi non concepiscono movimenti di liberazione che non partano dall’apoteosi della miseria (secondo l’appunto miserabile slogan: “Pace alle capanne, guerra ai palagi e alle chiese……….”): in tal modo, la miseria stessa viene ad avvelenare l’azione politica, mentre il mostro robespierrista degenera vieppiù verso quello leninista o fondamentalista islamico (né al peggio, ragionevolmente parlando, c’è un fondo).
2. Si sentono investiti da un “sacro fuoco”, solo perché provano indignazione: come se il “provare indignazione” comportasse chissà quali meriti !!!! – Pensino piuttosto al nonsense che li coglie in pieno, dato che pretendono d’individuare le ingiustizie senza però sapere cosa sia La Giustizia, che per venire parzialmente formulata prevede un rapporto di tensione trascendente da loro nemmeno immaginato.
3. Come conseguenza di questo mancato rapporto di tensione, subentra un totale vuoto di prospettive ideali.
4. E alla fine, quale “costrutto” e risultato, si ha che – lungi dal saper criticare lo stato di cose esistente – i cipigliosi antimperialisti finiscono col rifugiarsi acriticamente fra le braccia della “democrazia” tout court astoricamente intesa, anzi solo con una sua parte: IL SUFFRAGISMO. Peccato che – a questo proposito – sia rilevabile che anche Hitler e Hamas sono stati “eletti democraticamente”.
E che il resto, quindi, segua da ciò.
Portogruaro (Ve) – 6 ottobre 2008, PROF. ANTONIO FVIGILIUS OCCIDENTIS. |
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