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Giorgia Greco
Libri & Recensioni
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Howard Jacobson Kalooki Nights 06/10/2008

Kalooki Nights                                               Howard Jacobson

 

Traduzione di Milena Zemira Ciccimarra

 

Cargo                                                             Euro 20

 

 

 

Di che cosa è fatto l’umorismo? Ah, saperlo. Per capirne qualcosa ci vorrebbe forse un acceleratore come quello che, sotto la Svizzera (e contrattempi a parte), sta andando in cerca dell’istante cruciale in cui due minime particelle s’incontrano e si scontrano e tutto scatenano. In fondo, anche la battuta di spirito è un po’ così: arbitraria e imprevedibile. Affidata a una probabilità infinitesimale, intorno alla quale c’è un immenso universo di noia.

 

Per questo è così difficile far ridere sul serio. Perché per ogni risata riuscita ce ne sono miriadi affogate in un’alzata di spalle, una smorfia di sufficienza. E chi si accinge a scrivere qualcosa di comico, umoristico, anche soltanto vagamente spiritoso, dovrebbe sapere che va incontro a una sfida improba. Prendete ad esempio Howard Jacobson, autore inglese nato nel 1942 e di cui Cargo edizioni pubblica ora (coraggiosamente, per mole e iniziativa) Kalooki Nights. Jacobson è uno scrittore brillante, un fine osservatore della realtà ebraica: arguto e profondo al tempo stesso. Il suo libro più bello resta “Roots Schmoots: Journeys Among Jews.

 

Kalooki Nights si configura invece come un romanzo in senso stretto, anche se è in fondo il solito viaggio nell’essere ebrei. Solito sì, ma con esiti sempre diversi. Qui si narra la storia di un vignettista – acquerellista per la precisione -, che a un certo punto si trova a dover scopiazzare illustrazioni “per un editore pirata di erotismo gay privo di scrupoli”. E’ figlio di un boxeur professionista “che assomigliava a Einstein senza capelli” e di una yidishe mame decisamente sui generis, appassionata di Kalooki (una specie di ramino squisitamente ebraico). L’io narrante non è gay anche se per un certo periodo si ritrova a far il mestiere di cui sopra. Anzi, è appassionato di donne. Per la precisione, di shikse (ragazze non ebree e – non di conseguenza ma spesso, anzi sempre a sentir quel che dicono le mamme ebree – dai facili costumi). In particolare, il nostro ha un’insana passione per le fanciulle che hanno una dieresi nel nome. Ha anche un amico che un giorno fa fuori i propri genitori.

 

Ciò detto, il lettore sia pronto a non ridere. Non per la maggior parte del romanzo. Che è troppo, per far ridere. A meno di non darsi a una lettura random (un po’ come l’acceleratore di Ginevra, insomma): aprire una pagina a caso, scorrere un paragrafo o due. Perché il difetto di questo libro sta nella sua ridondanza sonora, proprio come quella che subisce il piccolo Max Glickman in una casa troppo rumorosa, dove da bambino non riesce mai a prendere la parola. Anche qui è detto tutto, troppo. Il che è in fondo assai poco ebraico: quella d’Israele è infatti una civiltà della parola che bada sempre a lasciare qualcosa in sospeso, ancora da dire.

 

 

 

 

 

Elena Loewenthal

 

Tuttolibri – La Stampa

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