Da PANORAMA del 3 ottobre 2008:
Gerusalemme è guerra politica sullo sfondo di una tragedia greca. Accusato di corruzione, il premier Ehud Olmert, che voleva fare la pace con i palestinesi e la Siria, è stato costretto alle dimissioni 2 anni prima della scadenza naturale. È cominciato l’ennesimo, estenuante rito per formare una nuova maggioranza politica guidata dall’astro nascente, Tzipi Livni, con i partiti, grandi e piccoli, che pongono condizioni e mettono veti.
A Tel Aviv, nell’Alta Galilea e nel deserto del Negev è invece pax economica con dollari ed euro che luccicano all’orizzonte. Gli affari, le acquisizioni e le fusioni, le ultime invenzioni, i nuovi prodotti: tutto procede come se nulla accadesse nella capitale. «Sono due mondi separati quello dell’economia avanzata e quello della politica vecchio stile. È così che Israele si afferma e cresce come potenza tecnologica» sorride nel suo ufficio di Herzliya, con vista strepitosa sul Mediterraneo, Ed Mvlasky, il fondatore e presidente del fondo Gemini, il primo israeliano di venture capital (1993), dedicato ai finanziamenti per le piccole aziende promettenti, appena costituite.
Pensi a Israele e vedi i suoi mille conflitti: con i paesi arabi, con i palestinesi sull’uscio di casa, con l’Iran di Mahmoud Ahmadinejad che vuole spazzarlo via dalla carta geografica. Ma c’è un altro Israele, quello dell’economia, che mostra una resistenza a guerre, intifade e kamikaze. Nei 60 anni di vita dello stato ebraico il pil è cresciuto in media del 7 per cento l’anno, con il picco similcinese nel 2000 (8,9 per cento) e il tasso del 5,3 nel 2007. L’inflazione è bassa, di poco superiore al 3 per cento.
Manuel Trajtenberg, che guida il consiglio economico nazionale, sintetizza questo miracolo basato sull’industria dell’innovazione: «Nel settore hi-tech dal 1990 la crescita è stata del 15 per cento l’anno, con 4 mila aziende, la maggior parte delle quali sono start-up. Israele è il secondo mercato per venture capital dopo gli Stati Uniti. È il quarto paese al mondo per brevetti. Ha un altro record mondiale: il rapporto fra pil e ricerca e sviluppo, pari al 4,6 per cento».
Quando si va alla scoperta di questa realtà così poco conosciuta è come fare un viaggio nel mondo di là da venire. Una volta si diceva banalmente che questa era «la nuova Silicon Valley», modellata su quella della California. È un’etichetta già superata. Il salto di qualità è recente, da quando alla classica information technology (It) si è aggiunta la nuova realtà dell’energy technology (Et), vale a dire tutto quel promettente settore delle energie rinnovabili, a cominciare da quella solare. Senza dimenticare la bioingegneria e la nanotecnologia. In tutto 100 mila persone, fra scienziati, ingegneri, fisici, programmatori, top manager, stanno realizzando la profezia di Albert Einstein: «Israele può vincere la difficile battaglia della sopravvivenza solo sviluppando l’intelligenza, l’esperienza e la cultura dei suoi giovani nel campo della tecnologia».
Einstein lo affermò nel 1924, dopo una visita al Technion, l’università tecnologica ebraica, appena fondata a Haifa. Da modesto edificio il Technion è diventato oggi una città di oltre 1 milione 200 mila metri quadrati, con 41 centri di ricerca, 600 docenti e 13 mila studenti (60 per cento uomini e 40 donne, che pagano una retta annuale di 1.700 dollari). «Il 70 per cento dell’industria ad alta tecnologia d’Israele è stato fondato da laureati del Technion» si compiace il rettore Yitzak Apeloig. E racconta che qui è stato creato l’algoritmo Lempel-Ziv, da noi tutti usato ogni giorno per spedire e ricevere le email; e che nel 2004 due professori del Technion hanno vinto il premio Nobel.
È attorno a questo centro di eccellenza, uno dei primi 10 al mondo, che si è coagulato lo spirito scientifico e imprenditoriale. Con il risultato, conclude Apeloig, che «oggi il 60 per cento del nostro export viene da questo settore. È un giro d’affari di 30 miliardi di dollari».
Una visita ad alcuni dipartimenti del Technion chiarisce il modello di business tipico di Israele: formazione di qualità, ricerca scientifica più applicazione, più commercializzazione. Prendiamo, per esempio, il laboratorio di ingegneria biomedica guidato da Dror Seliktar, professore, 36 anni. È il pioniere degli studi sulla rigenerazione dei tessuti. «Sei anni fa abbiamo sviluppato l’idea di ricreare le cartilagini, le ossa, i nervi e i muscoli combinando le cellule viventi con diversi materiali» racconta. «Due anni dopo abbiamo creato una piccola società che è stata inserita nell’incubatore del Technion e solo l’anno scorso abbiamo cominciato ad avere sufficiente visibilità per raccogliere 7,5 milioni di dollari». Con 12 dipendenti la Rigentics si accinge ora a iniziare in Europa la fase sperimentale.
Un edificio più in là trovi l’équipe di Alon Wolf, che ha inventato i serpenti-robot. Si possono impiegare in grandi dimensioni, a bordo di automezzi teleguidati di esercito o polizia, per scoprire, per esempio, dove è nascosto l’esplosivo all’interno di un edificio. Oppure, dotati di minitelecamere, per trovare sotto le macerie le vittime di un terremoto. Ma, ridotti ai minimi termini, possono essere utilizzati per interventi chirurgici al cuore, come sta sperimentando all’Università americana di Pittsburgh il medico veronese Marco Zenati, socio di Wolf.
Fuori dal campus Technion è tutto un fiorire di grattacieli. Sono i centri di ricerca e sviluppo di colossi mondiali: Intel, Microsoft, Google, Motorola, General Motors, Alcatel e Siemens. «Avete salvato la nostra società» ha riconosciuto Paul Otellini, il presidente dell’Intel, applaudendo i suoi ricercatori di Haifa che hanno inventato i processori Centrino 1 e 2.
L’ondata di scienziati ebrei fuggiti dall’Urss a inizio anni 90 ha rappresentato la prima fucina di cervelli. A questi si sono aggiunti migliaia di giovani che hanno svolto il servizio militare nelle unità d’élite dell’esercito. Infine i nuovi immigrati, inclusi molti arabi, completano il «melting pot», il vero motore dell’industria tecnologica israeliana.
Nella fabbrica della Iscar, ai confini con il Libano, lavorano tutti assieme. Quest’azienda, definita un «kibbutz capitalista» e presente in 60 paesi, con 5 società anche in Italia, produce strumenti ad altissima precisione. Due anni fa fece scalpore perché il miliardario Usa Warren Buffett ne acquistò l’80 per cento sborsando 4 miliardi di dollari. «Ora sono solo il presidente onorario» si schermisce Stef Wertheimer, 81 anni, fondatore della società, «e posso dedicarmi al mio sogno: aprire parchi industriali come questo, che è l’unico modo per fare pace con i nostri vicini. Perché se hai lavoro non hai tempo per la guerra».
Dall’Alta Galilea a Tel Aviv, nel quartier generale del gruppo Rad, colosso delle comunicazioni, 3.750 dipendenti per 740 milioni di dollari di fatturato. Il presidente Zohar Zisapel riassume l’originalità del piano di sviluppo: «Ogni volta che nasce un’idea creiamo una start-up con manager propri: la società madre pensa solo a coordinamento strategico e condivisione del marketing». Rad lavora da anni in Italia e ha sviluppato soluzioni per Tim, Enel, EdisonTel e Teleunit.
Ma la nuova frontiera dell’hi-tech d’Israele è l’energia verde. «Il solare è l’alternativa vera al petrolio, il male assoluto e la causa di tutti i guai del mondo» proclama il visionario Wertheimer. Nel deserto del Negev, nel parco industriale di Rotem, fra la centrale atomica di Dimona e i campi di addestramento delle unità speciali dell’esercito, è stato appena inaugurato l’impianto pilota della società Luz 2, 1.640 specchi installati che generano energia termica dal sole. Entro 2 anni, prevede il presidente Arnold Gold man, sorgeranno in California diversi impianti come questi, in grado di generare dai 100 ai 200 megawatt.
Il sole, in un modo o in un altro, compare nelle sigle di un centinaio di altre aziende all’avanguardia, non solo nel termico ma sempre di più anche nel fotovoltaico. Accanto al sole c’è l’acqua. L’avveniristico stabilimento di Shafdan, guidato dalla giovane manager Nelly Icekson-Tal, è il più avanzato al mondo nel trattamento dei liquami. L’acqua ricavata ogni giorno serve in agricoltura per irrigare una parte del deserto del Negev.
Tanto fervore imprenditoriale, tanta informalità nei rapporti sociali e tanta possibilità di fare soldi hanno spinto anche l’italiano Astorre Modena, general part ner del fondo di capital venture Terra con sede a Gerusalemme, a scommettere su Israele. Con 25 milioni di dollari raccolti fra un gruppo di imprenditori italiani il giovane Modena ha investito in quattro società specializzate nell’acqua e nel sole. Dichiara: «Creare imprese da zero è diventato lo sport nazionale. I giovani imprenditori tecnologici sono oggi i nuovi eroi d’Israele»
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