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Fiamma Nirenstein ci parla della guerra antisemita contro l'Occidente

Riprendiamo da FORMICHE.net, la video-intervista di Roberto Arditti a Fiamma Nirenstein dal titolo: "A che punto siamo in Medio Oriente. Intervista a Fiamma Nirenstein". 
(Video a cura di Giorgio Pavoncello)

Intervista a tutto campo a Fiamma Nirenstein di Roberto Arditti, a partire dal suo ultimo libro: "La guerra antisemita contro l'Occidente". Le radici dell'antisemitismo e perché l'aggressione contro il popolo ebraico in Israele è un attacco a tutto campo contro la civiltà occidentale. E una sconfitta di Israele segnerebbe anche la nostra fine. 



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Corriere della Sera Rassegna Stampa
04.10.2008 Intervista con David Grossman
di Cristina Taglietti

Testata: Corriere della Sera
Data: 04 ottobre 2008
Pagina: 47
Autore: Cristina Taglietti
Titolo: «Grossman: il libro che mi ha salvato»

Grossman: il libro che mi ha salvato

«Durante i giorni del lutto pensavo che non l'avrei mai finito»

Sul CORRIERE della SERA di oggi, 04/10/2008, a pag.47 un articolo di Cristina Taglietti sul nuovo libro di David Grossman.


di CRISTINA TAGLIETTI
La morte del figlio Uri, ucciso il 12 agosto 2006 nelle ultime ore della seconda guerra del Libano, David Grossman la chiama la «catastrofe ». E non si può non pensare alla catastrofe quando si legge il suo nuovo romanzo
A un cerbiatto somiglia il mio amore in uscita da Mondadori (traduzione di Alessandra Shomroni, pp. 782, e 22). Non si può non pensarci perché il cuore di questo libro, iniziato tre anni e tre mesi prima che Uri cadesse, è la storia di una donna, Orah, e di suo figlio, Ofer, che negli ultimi giorni di ferma si offre volontario per un'incursione in Cisgiordania. La madre lo accompagna al punto di ritrovo e poi decide di partire da sola per la gita che aveva programmato con lui. Una gita che è un modo per fuggire, per non farsi trovare in casa quando i rappresentanti dell'esercito verranno a comunicarle che il figlio è stato ucciso, ma anche un modo per proteggere il figlio («una ribellione» spiega Grossman) raccontando nei dettagli la vita del ragazzo ad Avram, amico e amore di gioventù, che l'accompagna in questo viaggio. Anche Grossman, scrive nella pagina finale del romanzo, aveva la sensazione (o meglio il desiderio) che il libro che stava scrivendo potesse proteggere Uri. Così non è stato e quando la catastrofe è avvenuta lo scrittore ha sentito che non avrebbe più potuto continuare. «Quando, la mattina dopo, i miei amici Amos Oz e Abraham Yehoshua sono venuti a trovarmi ho detto loro: non so se riuscirò a salvare questo libro. Amos mi ha risposto: sarà lui a salvare te. Sono andato avanti e il libro si è rivelato l'unico posto in cui potessi stare. È un romanzo sulla vita nel suo complesso e scriverlo mi ricordava la necessità di essere nella vita completamente. Così sono riuscito a non rimanere vittima di quello che era successo».
Grossman parla piano, scrutandoti con i suoi occhi gentili. È la sua prima intervista in due anni: «Nel mio Paese non ho parlato di questo libro, sapevo che gli israeliani non ne avevano bisogno, ma all'estero sento la necessità di accompagnarlo». In effetti, dentro questo romanzo c'è tutto: l'amore (un triangolo per la precisione ma, spiega Grossman, «era già così nell'Eden: una donna, un uomo, un serpente »); la maternità che lo scrittore riesce a raccontare con straordinaria, istintiva sensibilità («Essere padre è stare alla finestra e guardare dentro, nella cucina. Io invece ho voluto stare dentro»); la paura («una paura esistenziale che chi è cresciuto con la pace non riesce a capire»), ma anche la speranza e il ritorno alla vita (è quello che succede ad Avram, rimasto bloccato, chiuso in se stesso, dopo essere stato fatto prigioniero e torturato dagli egiziani) durante la guerra dello Yom Kippur. I temi universali sono calati all'interno di una realtà drammaticamente viva (Se per disgrazia Israele non dovesse più esistere, ha scritto Glucksmann in una delle prime recensioni, questo libro sarebbe in grado di raccontarci esattamente com'era). L'intento, spiega Grossman, era «vedere la piccola bolla della famiglia dentro la brutalità del mondo esterno, cercare di capire come proteggerne l'intimità, la tenerezza, in una realtà che è l'opposto della comprensione e della
pietas. Come possiamo noi essere sempre in guerra e tuttavia restare uomini? Forse non sappiamo nemmeno più com'è la vita con la pace. Israele è sempre o in guerra o dopo una guerra o prima di una guerra. Questo è il mondo in cui crescono i nostri figli, un mondo in cui, come ho visto in tv, una giovane sposa alla domanda "quanti figli vorresti" può rispondere "tre perché se uno muore, ne abbiamo altri due"». Una realtà che Grossman riesce a rendere in modo magistrale con piccoli dettagli di quotidianità: le prove sul percorso più sicuro per andare a scuola in autobus, il tavolo al ristorante davanti alla porta per vedere chi entra, i bambini che individuano sull'atlante i Paesi «nemici», i militari che prima di partire per una missione si fanno fotografare tenendo le teste lontane per lasciar spazio al cerchio rosso che li potrebbe circondare sul giornale. Perché continuare a vivere lì? Viene da chiedere. «È casa mia — è la semplice risposta di Grossman — è l'unico Paese in cui potrei vivere, l'unico posto che capisco e che decodifico anche se mi spaventa a morte. Chi arriva in Israele per la prima volta rimane scioccato dalla sua vitalità, da come la gente possa continuare a essere creativa, amare, insistere nelle cose di tutti i giorni. Questo forse è il motivo per cui la nostra letteratura è così fiorente». Una letteratura che, spiega Grossman, può ancora servire alla pace. «Certo quando parlano le bombe, è molto difficile udire le parole. Ma io devo crederci, non posso permettermi il lusso della disperazione. Noi scrittori possiamo raccontare una storia diversa, in cui non siamo condannati a essere vittime. Stalin disse che un morto è una tragedia, un milione di morti una statistica. La letteratura questo può fare: far capire a ogni singolo lettore la tragedia dove è ormai abituato a vedere la statistica».
Grossman è stato spesso critico con il suo Paese, nel nome del dialogo e della necessità di vedere le cose «con gli occhi del nemico»: «Non possiamo permetterci di guardare il conflitto soltanto dal nostro punto di vista, dobbiamo trovare il modo per comprendere le ragioni dei palestinesi e aiutarli a uscire dalle loro stesse trappole. Io non ho mai idealizzato la lotta palestinese perché idealizzare significa togliere umanità, il contrario di ciò che si dovrebbe fare». Guardare le cose con gli occhi del nemico si può fare quando i torti e le ragioni si trovano da ambo le parti, ma come si fa quando ci si trova di fronte al Male assoluto, come nel caso del nazismo? Si può raccontare l'Olocausto con la voce del nazista come ha fatto Jonathan Littell? O, come scrisse Primo Levi, «comprendere significa mettersi al loro posto, ma nessun uomo normale può identificarsi con Hitler, Himmler, Goebbels»?. «Non ho ancora letto Le Benevole, che è appena stato tradotto in ebraico — spiega Grossman —. Quindi non posso commentarlo, ma non sono d'accordo con quanto diceva Levi. Secondo me si può, si deve cercare di capire come una persona normale possa diventare un nazista, anche se può fare paura scoprire come è facile collaborare con il Male. Ma attenzione: c'è una differenza tra guardare con gli occhi del nemico e giustificarlo. Scrivere è un'azione morale. Come Sartre, non riesco a immaginare una letteratura che non sia rivolta al bene».
Padre e figlio
A fianco lo scrittore David Grossman.
In alto il figlio Uri, ucciso in Libano il 12 agosto 2006
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