Sogni di pioggia Gina B. Nahai
Traduzione di Valeria Bastia
Mondadori Euro 17,60
“Alcune famiglie sono più strane di altre”, scrive Gina B. Nahai nelle prime pagine di Sogni di pioggia, che, nella storia di cui tratta, vuole anche dire più infelici. E si sa che l’infelicità, essendo come nel famoso incipit tolstoiano sempre a modo suo cioè peculiare e individualista, favorisce il romanzo. In questo libro l’infelicità ha davvero molte risorse: nella famiglia al centro del racconto le disgrazie private si accumulano, sostenute da una disgrazia pubblica che non consente via d’uscita. Gina B. Nahai, autrice di numerose opere narrative finora da noi mai pubblicate, è nata in Iran, ma è cresciuta in Svizzera e negli Stati Uniti dove vive e lavora in ambiti diversi: insegna Creative Writing, collabora con varie testate giornalistiche e ha svolto attività di ricerca per diversi enti tra cui il Dipartimento della Difesa. Il libro dell’esordio (Cry of the Peacock del 1991) raccontava romanzescamente la storia di tremila anni del popolo ebraico in Iran. Il recente Sogni di pioggia (tradotto in un italiano scorrevole, talvolta un po’ sbrigativo, da Valeria Bastia) pesca nella stessa materia, la vita degli ebrei in Iran, ma è concentrato in un breve giro di anni, tra gli ultimi dello scià Reza Palhevi, dell’influenza americana e della modernizzazione, e la rivoluzione dei mullah.
In scena una figlia che racconta una madre e, appunto, i suoi strani familiari, “incantevoli come i personaggi delle fiabe, tragici nell’animo”. Tutto si svolge tra fiaba e tragedia nella storia di Bahar, la madre della narratrice, figlia di due poveri ebrei, una goffa ricamatrice e un cantore di cerimonie, con due sorelle di cui una desolatamente nubile e l’altra così malmaritata che finirà per impiccarsi, e due fratelli, di cui uno disadattato e un altro convertito all’Islam per interesse: come in una favola nera il colpo di fortuna della protagonista sarà la sua definitiva rovina e la rovina della bambina che metterà al mondo. Bahar riesce a farsi sposare da un ragazzo della ricca borghesia ebraica della città, che guarda però con disprezzo la periferia a due passi dal vecchio ghetto dove i futuri parenti abitano. E disprezzo, tradimenti, lotta di classe sotto le lenzuola coniugali trasformeranno rapidamente il sogno d’amore in un incubo.
Ma Sogni di pioggia non è solo una drammatica storia sentimentale. Il romanzo da un lato illumina il legame crudele, disperato perché solitario e superstizioso, che lega la madre e la figlia; dall’altro la confusa umanità di una Teheran che guarda al paradiso americano del benessere, tra centri di bellezza e automobili imponenti, e intanto coltiva secolari pregiudizi, in una società di caste poco solidali dove gli ebrei sono imprigionati in una rete di ingiustizie che riverberano negli stessi rapporti interni della comunità, fino ai paria dei paria, le donne ebree povere, sottomesse a un’infinita gerarchia di poteri maschili.
Nahai, spiegano le note biografiche, è un’importante conferenziera sui temi del Medio Oriente e dei diritti delle donne, ma qui non fa conferenze e non si lascia neanche andare allo stucchevole pathos folcloristico e nostalgico di tanti romanzi etnici: se in Sogni di pioggia, tra fantasmi quotidiani e rituali esotici, uno smalto fiabesco ricopre la realtà non è per nasconderla, ma perché ogni particolare, anche il più straziante, risulti preciso come in un’antica miniatura. Tutto, in questo romanzo pieno di spettri e di bagliori, è concreto, tangibile: soprattutto la violenza, quella del cuore e quella storica, strettamente intrecciate nelle volute di un tempo circolare in cui il passato insegue con malevola determinazione il presente, senza lasciare scampo.
Elisabetta Rasy
Il Sole 24 ore