Perché il ‘68 è stato un anno importante, quasi uno degli spartiacque che ogni tanto vanno a dividere il tempo.
Così come è diventato un modo di dire “è successo un quarantotto”, anche il sessantotto ha offerto a qualcuno il destro di definire “formidabili quegli anni”. E da dove sono incominciati “quegli anni”? Ma sì, proprio dal sessantotto, battezzato il “maggio francese”, anno della rivolta partita dalle università di Parigi, la Sorbonne, e di Nanterre (ma il “la” l’aveva dato l’Università californiana di Berkeley) e approdata poi alle fabbriche, per dilagare per imitazione da noi, che già avevamo ben altri problemi.
Per cominciare, tanto per augurarci il buon anno, dal 14 gennaio, con il terremoto del Belice, in Sicilia che procurava 300 morti, migliaia di feriti e 150.000 senzatetto, che tali dovevano restare per molti e molti anni. Le baracche di fortuna che avrebbero dovuto essere sostituite a breve da più robuste costruzioni erano ancora lì molto tempo dopo, vive e per così dire vegete, e si offrivano volenterose agli sguardi attoniti dei turisti stranieri e a quelli più comprensivi dei nostri.
Dall’altra parte del mondo, in Vietnam, i nordvietnamiti scatenavano, sempre a gennaio, una grande offensiva contro le forze americane e sudvietnamite, giungendo a lambire Saigon e occupando il centro nevralgico di Hué, subito però riconquistato dalle truppe USA che mettevano fine al tentativo di Hanoi di decidere le sorti della guerra. Eppure questa fallita ”offensiva del Tet” doveva risultare (potenza dei media?) una grande vittoria comunista e finiva per segnare davvero il destino del Vietnam del Sud e l’umiliazione americana.
Meno importante, ma con qualche tocco da teatro dell’assurdo, l’uscita dell’Albania dal Patto di Varsavia. Il dittatore Enver Hoxha, fino ad allora spietato esecutore degli ordini di Mosca, ritenne opportuno scegliere l’abbraccio con la Cina di Mao-ze-dong, il cui unico pregio agli occhi albanesi era di essere sufficientemente lontana.
Più vicino a noi il Medio Oriente e la guerra-lampo, detta “dei sei giorni”, che era stata un anno prima la fulminea vittoriosa risposta d’Israele all’aggressione congiunta di Egitto, Giordania, Siria e Iraq.
In questo sessantotto si discute ancora sulla Risoluzione di novembre dell’ONU: Israele doveva ritirarsi dai territori occupati (versione francese “des territoires”) o da territori occupati (versione inglese “from territories”)?
Per l’Unità, organo di stampa del PCI le cose erano chiare fin dall’anno prima. Era infatti il 14 giugno del ’67, dunque appena un paio di giorni dopo la cessazione delle ostilità, quando l’Unità decideva che lo Stato d’Israele era il frutto di “un movimento tecnocratico e nazionalista, solidamente appoggiato dalle banche americane, frutto di pionieri di gran classe, conquistatori nati”. I soldi, naturalmente, i soldi, di cui gli ebrei da sempre dispongono in misura esagerata, tanto da dirottarne una parte, tramite le loro banche, per fondare uno Stato, abusivo o meno che fosse. Braccio armato di questi banchieri ebrei o ebreizzanti erano naturalmente quei pionieri “conquistatori nati” e “di gran classe”, in gran parte probabilmente addestrati in quegli shtetl miserabili di lumpenproletariat (per dirla con Marx) che “vivevano d’aria” (per dirla con una sintetica espressione yiddish), definiti anche da De Gaulle “un popolo sicuro di sé e dominatore”.
Ora, giugno 1968, a un anno preciso dalla guerra dei sei giorni, l’Unità commemora l’infausto avvenimento: “Ricordiamo tutti quanti quanto accadde un anno fa. Un’abile propaganda, mistificando tutti i dati del problema, aveva portato larga parte dell’opinione pubblica italiana e mondiale a credere davvero al pericolo dello sterminio e del genocidio degli ebrei”. Il titolo è “Medio Oriente ad un anno dalla guerra di conquista”.
Ma davvero era stata tanto abile quella propaganda? L’allora presidente egiziano Gamal Abder Nasser aveva annunciato da Radio Cairo alla vigilia di quei “sei giorni” che “La guerra con Israele non verrà limitata alla frontiera egiziana o a quella siriana. Sarà una guerra totale e il suo obiettivo sarà la distruzione d’Israele”.
E dalla stessa Radio Cairo il 5 giugno del ’67 usciva questa garbata esortazione: “Uccideteli tutti, non lasciatene uno vivo sulla terra, che avrà sempre qualcuno che lo piangerà”. Un altro trucco della propaganda sionista?
Curioso quello che ha potuto fare la propaganda ebraica. Chissà che oggi non si trovi qualcuno che indichi nel presidente iraniano Ahmadinejad un propagandista sionista.
Ma il ’68 ci propone altri fatti.
In Francia la rivolta degli studenti vede confluire nelle file dei “ribelli” anche molti operai. La risposta del presidente Charles De Gaulle arriva il 30 maggio con lo scioglimento delle Camere. Alle elezioni successive la sinistra subisce una dura sconfitta. Tra non molto però De Gaulle sarà costretto a dimettersi. Gli studenti universitari otterranno dei risultati, come la moltiplicazione delle università a Parigi che decongestionerà la Sorbonne.
E gli operai? Tornano in fabbrica, però De Gaulle è battuto. Ma una crisi più grave si abbatterà sull’Europa.
Il 21 agosto le truppe sovietiche e quelle degli eserciti dei paesi vassalli (ma l’Ungheria dice “no” a Mosca) invadono la Cecoslovacchia, a venti anni precisi del golpe che nel 1948 aveva portato i comunisti al potere (cinque anni dopo quasi tutta la dirigenza cèca finirà fucilata, dopo un processo con pesanti connotazioni antisemite che sarà la copia esatta dei Grandi Processi di Mosca conclusi – potenza del numero 8 – nel 1938).
L’occupazione sovietica mette fine al tentativo di Alexander Dubcek _ un comunista moderato – di dare vita ad un “comunismo dal volto umano”. E’ la fine di quella che era stata chiamata la “primavera di Praga”.
Molti riescono a lasciare la Cecoslovacchia, ma molti vengono arrestati e condannati a lunghe pene detentive, mentre non smettono di funzionare i plotoni di esecuzione e le botole del capestro.
La condanna per l’azione sovietica, che riporta alla mente le analoghe azioni tedesche prima della seconda guerra mondiale, è quasi unanime in Europa e nel mondo. Persino nei partiti comunisti dei paesi democratici c’è disagio. La “cortina di ferro” di churchilliana memoria incomincia a mostrare delle crepe. Per farla crollare ci vorranno altri vent’anni.