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Corriere della Sera Rassegna Stampa
29.09.2008 Sergio Romano segnala gli ebrei nel governo sovietico
elenchi simili non vengono compilati per altri gruppi nazionali

Testata: Corriere della Sera
Data: 29 settembre 2008
Pagina: 0
Autore: Sergio Romano
Titolo: «Stalin e gli ebrei dell'Urss. Come li usò, come li uccise»
Sergio Romano, rispondendo a un lettore sul CORRIERE della SERA del 29 settembre 2008, circa la politica di Stalin verso gli ebrei sovietici, elenca i nomi dei colloaboratori ebrei del dittatore, facendoli seguire dal loro ruolo nell'apparato del regime sovietico.
Un' "attenzione" piuttosto inquietante, che non viene abitualmente riservata a nessun altro gruppo nazionale dell'Unione sovietica.
Il titolo "Stalin e gli ebrei dell'Urss. Come li usò, come li uccise", pone nella giusta luce la vicenda, ma, come si sa, i titoli non vengono scelti dagli autori degli articoli, ma dalle redazioni.

Ecco il testo:

Conoscendo un po' la storia dell'Unione Sovietica penso che Stalin non fosse un antisemita. Mi sembra che si possa giungere a questa conclusione guardando diversi fatti. La figlia di Stalin era sposata con un ebreo con cui ha avuto un figlio e la moglie del suo braccio destro Molotov era ebrea. È stato il primo statista del mondo che nel territorio dell'Unione Sovietica ha creato un mini Stato ebraico e che esiste tuttora. Questa repubblica si trova da qualche parte oltre gli Urali e non è nella migliore posizione geografica. Ma per la prima volta nella storia moderna è stato assegnato agli ebrei un territorio dove potevano vivere e governarsi da soli, naturalmente nell'ambito dell'Urss. Penso che Stalin avesse l'idea che una buona parte degli ebrei del mondo fossero propensi alla proprietà privata cioè al capitalismo, l'opposto del comunismo. Perciò ha colpito gli ebrei perché pensava che avessero tendenze capitaliste. Invece gli ebrei che avevano abbracciato e sostenevano la causa comunista erano i suoi migliori amici e collaboratori.
Leonard Doga
l.doga@libero.it Caro Doga,
E' vero, fra i collaboratori di Stalin e i loro congiunti molti erano ebrei. Era ebreo Maksim Litvinov, ministro degli Affari Esteri dal 1930 al 1939 e ambasciatore a Washington dal 1941 al 1943. Era ebreo Genrich Jagoda, capo della Gpu e della Nkvd (i servizi segreti che furono eredi della Ceka), esecutore delle purghe staliniane fino al 1936. Era ebreo Lazar Kaganovic, braccio di destro di Stalin e autorevole membro del Presidium del partito comunista sovietico. Come ricorda Louis Rapoport ne «La guerra di Stalin contro gli ebrei» (Rizzoli, 1991) lo stesso può dirsi di Matvej Berman, organizzatore della mano d'opera schiava nei primi lager sovietici, e di Naftali Frenkel, a cui Stalin affidò la costruzione del canale fra il Mar Bianco e il Baltico: una impresa «che costò la vita a circa 200.000 prigionieri». Ed erano ebrei «migliaia di rivoluzionari (che) contribuirono con fervore messianico a guidare la macchina del Terrore ».
Molti, pur non essendo contaminati da simpatie capitaliste, ebbero la stessa sorte delle loro vittime. Lei ricorda il caso della moglie ebrea di Molotov, Polina Zhemchuzina. Stalin se ne servì, in particolare, quando volle che alcuni intellettuali ebrei (l'attore Solomon Michoels, il regista cinematografico Sergej Ejzenshtejn, il giornalista e scrittore Ilja Erenburg e il violinista David Ojstrach) costituissero durante la guerra un «Comitato fascista antiebraico», destinato a mobilitare il consenso e il sostegno dell'ebraismo americano. Ma non appena ebbe la sensazione che i membri del Comitato potessero diventare una quinta colonna sionista all'interno dello Stato sovietico, sciolse l'associazione, fece uccidere Michoels e ordinò l'internamento della moglie di Molotov in Kazakistan. Fu antisemita? Rapoport ritiene che Stalin abbia succhiato l'antisemitismo con il latte materno e lo abbia «respirato » nella scuola teologica di Gori, nel seminario di Tbilisi e nel clima di giudeofobia diffusa che fu all'origine dei pogrom ucraini e moldavi di fine Ottocento. Vi sarebbe una componente antisemita quindi nella sua spietata battaglia contro Zinovev, Kamenev e soprattutto Trotsky. Ma vi furono, a mio avviso, anche altre ragioni. Quando studiò il problema delle nazionalità, all'inizio della sua carriera politica, e soprattutto quando cercò di risolverlo assegnando a ogni nazionalità un territorio nell'ambito di uno Stato pseudo- federale, Stalin si scontrò con il problema ebraico. Il Bund (l'organizzazione politico- sindacale degli ebrei polacco- lituani) non chiedeva terra, ma autonomia: una prospettiva che dovette sembrargli intollerabilmente pericolosa per l'unità dello Stato e la dittatura del partito. Fu questa, probabilmente, la ragione per cui inventò nel 1928 la Repubblica autonoma del Birobidzhan, nella Siberia orientale, un remoto staterello asiatico in cui la lingua ufficiale, paradossalmente, è l'yiddish, ma gli ebrei sono soltanto il 4% della popolazione che si compone di 75.000 persone.
A queste considerazioni occorre aggiungere, caro Doga, la patologica diffidenza di Stalin per chiunque fosse sospettabile di avere altre lealtà. Per questo provinciale georgiano di stirpe osseta (ma nazionalista grande-russo) gli ebrei erano troppo internazionali, troppo cosmopoliti, troppo legati per vincoli familiari ad altre nazioni. Li usò spregiudicatamente quando gli servivano e li eliminò spietatamente quando li considerò pericolosi. Alla fine della sua vita, con il «complotto dei camici bianchi », decise di risolvere una volta per tutte il problema ebraico. Non vi riuscì perché la morte gli impedì di portare a termine l'operazione o meglio ancora, come disse Solzhenitsyn, perché «Dio gli disse di separarsi dalla sua gabbia toracica».

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