Abram Kadabram Etgar Keret
Traduzione di Alessandra Schomroni
e/o Euro 15,00
Quando succede di perdere il portafoglio, la faccenda è sgradevole, piuttosto concitata e richiede un numero di azioni rituali pressappoco uguali per tutti: cercare di ricordare i propri ultimi movimenti, chiamare amici e parenti, e in caso d’insuccesso, telefonare alla banca. Insomma, una bella seccatura.
Se a perdere il portafoglio, invece, è Etgar Keret, qualcosa cambia. Mi è capitato di essere con lui, dopo una sua conferenza all’Università di Berlino, proprio in questa situazione. Era tardi, eravamo un po’ stanchi e il ristorante già prenotato, ma il portamonete di Etgar Keret proprio non si trovava. Il piccolo gruppo di amici aveva dato inizio al rito con prontezza, tempestando Etgar Keret di domande sui suoi ultimi spostamenti, e sui luoghi a rischio in cui avrebbe potuto depositare cartella e giaccone. Lui però, più incuriosito che preoccupato, invece di correre a destra e a manca, aveva cominciato a sciorinare una serie di ipotesi favolistiche sul come e sul quando il suo portafoglio si sarebbe potuto smarrire. O meglio, ad ascoltare Etgar, non era stato lui a perdere il borsellino, ma piuttosto questo, stanco di seguirlo, aveva deciso di andarsene per i fatti suoi. Ecco perché, sosteneva, per scovarlo bisognava immedesimarsi nelle sue (del portafoglio) esigenze e aspirazioni, in una metropoli tentatrice sul far della sera. Naturalmente in quel modo non trovammo nulla, ed Etgar venne a cena squattrinato. Per la cronaca, il portamonete riapparve misteriosamente intatto in un’aula, la mattina dopo, ma quello che importa qui è l’affinità tra il Keret cantastorie e i suoi personaggi stralunati, sempre pronti a prendere lucciole per lanterne.
Nella raccolta Abram Kadabram, costellata di racconti brevi, spesso brevissimi, a farla da protagonisti sono oggetti dispettosi, proprio come il portafoglio berlinese. Per Keret, non c’è nulla di più mutevole, ironico e a volte pauroso del mondo che definiamo, con superficialità, inanimato. Porcellini salvadanaio guardano imploranti e si comportano come animali domestici, conigli scompaiono nelle profondità di tenebrosi cilindri, per poi riemergere deformi e inquietanti. Addirittura parole astratte come “Successo” e “Felicità” si gettano sugli uomini con violenza da mercenari: tutto l’universo dello scrittore israeliano è scosso da una continua trasmutazione.
Le “metamorfosi” di Keret paiono quasi il corrispettivo postmoderno di quelle ben più auliche e ritmate della poesia latina di Ovidio. Anziché con versi ben torniti si ha però a che fare con una prosa intenzionalmente fumettistica, sboccata e irrisolta, come irrisolti, immaturi, mitomani sono i protagonisti.
Non stupisce che i veri eroi di questo “underworld” israelo-surrealista siano scalcinati prestigiatori pieni di debiti, che riescono a far scomparire il televisore nuovo sotto il naso dell’ufficiale giudiziario o che trasformano lattine di birra vuote in dollari fruscianti. Alcune delle metamorfosi più minacciose sono quelle arabo-israeliane, per esempio quando un soldato dello Stato ebraico e un militante di Hamas s’avvinghiano in una disperata giostra medievale. E anche se c’è poco da stare allegri, Keret ha un così grande talento per l’assurdo da trasmetterci il contagio. Come nel racconto sulla malattia portata dai ragni macramè, che “ti s’insinuano nell’anima e te l’annodano, facendo una treccia dopo l’altra….così che alla fine sembra la testa di Bob Marley”. Vorrà dire che ce la terremo così, un’anima reggae.
Giulio Busi
Il Sole 24 Ore